Le icone antimafia presenti, la società civile assente

Scritto da  Pubblicato in Battista Notarianni

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bgnotarianni.jpgI casi, per adesso chiamiamoli così, della sindaca di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole, e, ultima nel tempo, di Rosy Canale, fondatrice del movimento “Donne di S. Luca” provocano rabbia, delusione, tristezza. Ingigantite, personalmente, anche perché riguardano due donne. Lo sdegno però non basta, serve qualche riflessione. Innanzitutto c’è bisogno di estrema chiarezza per sapere che la lotta contro la mafia (o ‘ndrangheta o camorra o sacra corona unita) la fa esclusivamente lo Stato attraverso i suoi rappresentanti ad hoc, magistrati e investigatori. E questo è un lavoro di giustizia e investigazioni, in base alla legge. La cosiddetta società civile non deve però stare a guardare, aspettando che le apparecchino la tavola. No. Deve partecipare e anche aiutare, dare sostegno  ma non solo attraverso i canali consueti – manifestazioni, incontri, tavole rotonde, costituzione di associazioni come l’antiracket, collaborazioni, ecc.. Perché tutto ciò serve, eccome, a chi combatte le mafie. Ma senza creare icone, personaggi a volte improvvisati, presidenti e rappresentanti, che servono ai media e alla popolarità dei sopracitati ma non alla lotta alle mafie. Serve la gente nel suo complesso, la sua partecipazione, la vicinanza profonda, reale e leale per risultare effettivamente essenziale per la riuscita delle indagini e dei processi. Faccio un esempio, raccontatomi da un procuratore della DDA di Catanzaro. A Napoli, quando uscì il primo libro di Saviano – Gomorra – la DDA (divisione distrettuale antimafia) aveva dieci magistrati. Il boom del libro mise pressione ai piani alti e la DDA raddoppiò l’organico. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Quando invece il cosiddetto impegno civile è presente solo nei soliti canoni da manuale (come convegni, tavolerotonde, manifestazioni, veglie), ma è assente nella collaborazione attiva e fattiva (anche quando è richiesta, quasi implorata, espressamente dagli investigatori e dai magistrati), ecco che possono prevalere quei famosi “professionisti dell’antimafia” di Sciascia e più recentemente di Nicola Gratteri, procuratore a Reggio Calabria (“basta con chi da dell’antimafia un mestiere. Basta con l’antimafia delle parole”). Detto questo sospendendo il giudizio sulla sindaca Girasole e sulla Canale in attesa delle verità, passiamo alla situazione di Lamezia.

Sempre un procuratore DDA di Catanzaro - con la valigia in mano pronto per il trasferimento dopo aver sgominato la cosca Giampà e messo sotto pressione in attesa di sviluppi imminenti le altre cosche del lametino e del vibonese e del crotonese – mi ha detto che sarebbe rimasto volentieri a lavorare ancora su Lamezia ma a determinate condizioni: il mantenimento del gruppo – la squadra per usare un termine di moda perché televisivo – con cui aveva lavorato (e sta ancora per poco lavorando) ma la sua richiesta pur non presentata ufficialmente non ha avuto sbocchi per diverse situazioni, definiamole burocratiche: il vicequestore che ad aprile diventerà questore e non può più restare a dirigere lo SCO locale, la grave carenza di magistrati (leggetevi l’intervista al presidente del Tribunale di Catanzaro di pochi giorni fa). E “l’assenza quasi totale”, termine virgolettato come da regola giornalistica, del sostegno pubblico. Perché se questo ci fosse stato o fosse stato molto ma molto più concreto, come sperava, allora sarebbe accaduto ciò che è successo a Napoli, che ha raddoppiato gli organici alla DDA locale. Perché se la società civile si muove, e bene, non c’è burocrazia che tenga.

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