Lamezia, operazione Locomotiva: “Se non portavo almeno 100 euro al giorno mi picchiavano e mi lasciavano senza cibo”

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Lamezia Terme – Poco più che trentenne, con due figli da mantenere rimasti in Nigeria con la madre, il fratello e la sorella, il tutto in una cornice di profonda povertà. Per questo aveva deciso di venire in Italia, “per migliorare la mia condizione di vita e quella dei miei familiari rimasti in Nigeria” e per questo aveva accettato la proposta che le era stata fatta, non sapendo, in verità, quale sarebbe stato il suo futuro. È la storia della 32enne nigeriana che ha deciso di denunciare le violenze, gli abusi e i ricatti costretta a subire dopo essere arrivata in Italia, dove aveva cominciato a lavorare, sì, ma come prostituta, e quel lavoro legale, pulito, che le era stato prospettato, in verità era solo una chimera.

La sua denuncia è scattata a gennaio, dopo, sono partite le indagini, da parte dei carabinieri del Gruppo di Lamezia, coordinate dalla Procura Distrettuale Antimafia, che hanno portato anche ai sette fermi scattati stamattina nel corso dell’operazione “Locomotiva”, nome che riprende uno dei luoghi, diventati tristemente “simbolo” della prostituzione a Lamezia. Giovanissime ragazze nigeriane reclutate: la storia della donna che ha deciso di denunciare potrebbe essere quella di qualsiasi altra ragazza. Stessi modi di reclutarle, puntando sulle difficoltà economiche familiari e la prospettiva di un buon lavoro in Italia: “[…] mi aveva promesso un aiuto per raggiungere l'Italia, dove sarei stata aiutata a trovare un lavoro legale, che mi avrebbe consentito di restituire gradualmente la somma di circa 15mila euro, che mi era stata anticipata per affrontare il viaggio, e di guadagnare per aiutare economicamente i miei familiari. Prima della partenza, avevo dovuto giurare, attraverso un rito vodoo praticato da uno stregone, di restituire questa somma economica una volta giunta in Italia e che avrei dovuto rispettare le indicazioni della signora (madame) e che avrei trovato qui e che mi avrebbe indicato il lavoro da fare”.

Una volta partita, il viaggio dalla Nigeria, in macchina, fino in Libia, attraversando il Niger e il deserto dove è cominciato un incubo, con le prime violenze subite da alcuni nigeriani, poi la scoperta casuale del lavoro che avrebbe dovuto svolgere in Italia, tramite un’altra ragazza, e l’arrivo in Libia, trasformatosi in una prigionia a casa di un signore che costringeva lei e altre ragazze a fare sesso con lui. “Non avevamo altra scelta perché non ci facevano uscire e, se non ci concedevamo a tutto quello che ci chiedevano, non ci davano da mangiare e ci picchiavano” ha raccontato agi inquirenti. Dal campo libico dove era finita, è sbarcata in Sicilia, e poi in Calabria: nel centro di accoglienza, dove si è messa in contatto con quella che sarebbe diventata la sua “madame”. Dopo qualche giorno arrivò a Sant’Eufemia.

“[…] Mi hanno dato dei vestiti che avrei dovuto indossare per prostituirmi […] Ho provato a rifiutarmi, ma mi è bastata la sua smorfia e la sua aria minacciosa per capire che non avrei avuto altra scelta. Quella sera stessa sono dovuta uscire con J., per andare nel parcheggio (quello con il trenino al centro) di Sant'Eufemia a prostituirmi”. A lei hanno poi spiegato come fare: “[…] quando si fermavano i clienti avrei dovuto indicare due dita o tre dita, in segno di 20 o 30 euro. È stata lei ad andare a comprare i preservativi con i 5,00 euro che le ho dovuto dare. La stessa mi ha dato il cellulare e mi ha detto che sarei dovuta scappare in caso fosse arrivata la Polizia e che, se mi avessero fermata, non avrei dovuto dire nulla”.

Quella vita non era facile, “[…] Le sere ero costretta a uscire per andare a prostituirmi nel parcheggio. Le prime volte non riuscivo, mi vergognavo e i clienti non si fermavano. Rientrata a casa, lei mi diceva che non avevo lavorato bene e non mi faceva mangiare e mi diceva che se non avessi lavorato, non mi avrebbe fatto rimanere lì e avrei passato grossi problemi”. Nonostante le minacce la 32enne ha raccontato che “In un'occasione sono rimasta per tre giorni a casa perché non volevo più prostituirmi”, un rifiuto che le è costato essere picchiata dai suoi aguzzini, che la costringevano a non mangiare se tornava a casa senza soldi. La ragazza ha riferito, infatti, che “la “retta giornaliera” doveva basarsi su un quantitativo minimo di euro 100 altrimenti veniva percossa e privata del cibo”.

Solo dopo l’arrivo in Italia scoprì di essere incinta di cinque mesi, a causa delle violenze subite in Nigeria e Libia, così fu costretta ad abortire con dei farmaci che le hanno provocato un aborto spontaneo. "[...] Un uomo di colore, del quale non conosco il nome, mi ha dato alcuni medicinali che mi hanno provocato un aborto spontaneo, uccidendo il feto. Io ero contraria". 

Dopo la denuncia, la giovane è stata portata in una località protetta, dove ha spiegato agli inquirenti che, a volte, è stata anche raggiunta telefonicamente sulla vecchia utenza dai suoi aguzzini che le chiedevano che fine avesse fatto perché vogliono che torni a prostituirsi. “[…] Inoltre i miei aguzzini sono riusciti a raggiungere la mia famiglia in Africa, minacciandoli affinché questi mi convincano a ritornare a prostituirmi a Sant’Eufemia. Infatti anche da loro ricevo delle pressioni per ritornare nella vecchia abitazione perché hanno paura che sia a me che a loro possa succedere qualcosa di brutto”.

C.S.

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