Lamezia, quattro arresti per “cavallo di ritorno”: 300 euro per la restituzione di un furgone rubato

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Lamezia Terme - È il “Cavallo di ritorno”, pratica diffusa che non è altro che una vera e propria estorsione per cui, chi ha subito un furto, paga una determinata cifra concordata per ottenere la restituzione della refurtiva. Ed è per questo che stamane sono scattati quattro arresti da parte dei carabinieri del nucleo investigativo di Catanzaro e Lamezia Terme. A rimanere coinvolti sono Vincenzo Grande, Francesco Berlingieri, Damiano Berlingieri e Antonio Miceli.

I fatti risalgono al febbraio del 2015 quando un cittadino ha subito il furto del suo furgone Ducato nei pressi del Tribunale lametino. Come ricostruito dagli inquirenti, le persone che hanno subito il furto si sono rivolte a Vincenzo Grande “[…] in quanto soggetto con le "giuste conoscenze"” per ritrovare il mezzo. Così Grande, insieme a Miceli, entrambi già coinvolti nell’operazione Crisalide, si erano attivati per risalire all’autore del furto. 

“[...] Sul punto, chiare ed eloquenti sono le conversazioni captate all'interno dell'auto del Grande, il quale il giorno 9 febbraio, subito dopo aver avuto conoscenza del furto, si reca con il Miceli in diverse zone della città di Lamezia Terme, notoriamente frequentate da soggetti di etnia rom a chiedere notizie del mezzo rubato”.  

Una volta trovato il furgone, è Grande che si mette in contatto con la figlia di colui che ha subito il furto per informarla “con un linguaggio criptico si riferisce ai "profumi" di aver ritrovato il mezzo ma che è necessario il pagamento della somma di 500 euro al fine di riscattarlo”. Non potendo sostenere la spesa, alla fine, continuano la trattativa fino ad arrivare alla somma di 300 euro per riavere il mezzo rubato.

Grande e Miceli, quindi, avrebbero avuto il ruolo di intermediari, mentre Damiano e Francesco Berlingieri sono stati identificati negli autori del furto. Per restituire il mezzo era stato organizzato un incontro.

“[…] L'intervento degli intermediari, - scrivono gli inquirenti - lungi dal realizzare un interesse della persona offesa, è finalizzato a dare corso alla vicenda estorsiva, consentendo agli autori della minaccia di ricevere l'ingiusto profitto”.

Così la persona che lo ha subito, come specificano gli inquirenti “[…] "soggiace" al pagamento del pizzo”. A Miceli e Grande non viene, dal Giudice, contestata l’aggravante della mafiosità perché “[…] se da un lato è vero che il mezzo sottratto […] è stato ritrovato grazie all'intervento del Grande, che ha probabilmente utilizzato il proprio "carisma" mafioso nei confronti di chi aveva la disponibilità del bene, è anche vero che lo stesso non è stato immediatamente restituito, bensì solo a seguito della corresponsione di una somma di denaro. Pertanto è evidente che il Grande per come è emerso all'esito delle conversazioni captate, si fa mero portavoce della richiesta estorsiva”.

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