Processo Perseo, parla Angelo Torcasio: "Quella era la vita: o carcere o morte"

detenuti-arrivo-tribunale-processo-perseo.jpg

Lamezia Terme - "Quella era la vita: o carcere o morte. Eravamo in un circuito peggio delle bestie. Dopo l'uccisione di mio fratello non ho avuto nessun dispiacere per chi è morto dopo". È la frase che racchiude il vero e proprio romanzo criminale raccontato in aula da Angelo Torcasio nell'udienza odierna del processo Perseo che si tiene al Tribunale di Lamezia Terme, davanti al collegio presieduto dal giudice Fontanazza e a latere dai giudici Aragona e Monetti.

Angelo Torcasio è stato il primo degli ex affiliati alla cosca Giampá a parlare e a diventare collaboratore di giustizia, sviscerando tutti i retroscena e i meccanismi dietro l'organizzazione criminale. Quasi sette ore di udienza durante la quale, rispondendo alle domande del pubblico ministero Elio Romano, ha raccontato tutto quello che sa sulla cosca Giampá. Entrato nelle grazie di Vincenzo Bonaddio che gli faceva da garante, Angelo Torcasio era diventato il figlioccio del cognato del "Professore", quando decise di affiliarsi alla cosca Giampá e di vendicare l'uccisione di suo fratello Antonio, assassinato dalla famiglia Torcasio nel gennaio del 2001. La vendetta che lo muoveva e la familiarità con gli ambienti criminali hanno fatto il resto: Angelo Torcasio, infatti, da lì a breve cominciò a far parte del gruppo di fuoco della cosca che ai tempi era capeggiata da Francesco Giampá, "il professore", e che aveva una dettagliata organizzazione interna. A prendere le decisioni, infatti, nelle parole del collaboratore, era la cosiddetta "Commissione" formata da 5 componenti: Giuseppe Giampá, Vincenzo Bonaddio, Pasquale Giampá "Millelire", Aldo Notarianni e Rosario Cappello "montagna". Erano gli stessi componenti della commissione ad organizzare nei minimi particolari gli omicidi, coadiuvati dal gruppo di fuoco: fu così, infatti, come ha spiegato in aula oggi, per tutti gli omicidi che insanguinarono Lamezia per molto tempo e in particolare dai primi anni del 2000 fino al 2011.

Nel corso dell'udienza Torcasio ha raccontato la sua prima volta, quando ammazzò nel 2003 Giuseppe Torcasio, detto "Ciucciaro", per continuare poi con gli altri ai quali partecipò anche solo come autista. Una vera a propria guerra volta ad eliminare dalla piana lametina qualunque altra persona facesse parte della cosca avversaria Cerra Torcasio Gualtieri.  Era stretto il cosiddetto "gruppo di fuoco", affidato a pochi soggetti affiliati al clan, ai quali si aggiunsero poi negli anni anche personaggi come Francesco Vasile, che diventò il killer di fiducia di Giuseppe Giampá e sul quale Vincenzo Bonaddio aveva detto che per lui "commettere un omicidio è come fumare una sigaretta".

detenuti-arrivo-tribunale-processo-perseo-2.jpg

Una faida, per come raccontato nelle dichiarazioni del collaboratore durante l'udienza, che da esterna diventò interna già dopo l'omicidio di Giuseppe Chirumbolo, freddato in una sera del 2010 in via Salvatore Miceli. Ad ordinare l'omicidio fu il boss che gli faceva da garante e che pensava che l'avesse tradito. "Giampá - ha spiegato Angelo Torcasio - aveva paura che se non fosse stato ucciso, Chirumbolo sarebbe diventato un collaboratore". La rottura inevitabile avvenne tra Il boss e suo zio, Vincenzo Bonaddio, quando Giuseppe Giampá scoprì che molti detenuti, gli associati e le loro famiglie si lamentavano per la mancanza di "assistenza" e che molti dei soldi finivano nelle tasche di Vincenzo Bonaddio.

Per questo ci fu una riorganizzazione interna che diede ancora più potere ad Angelo Torcasio, che diventò il cassiere della cosca, oltre a curare, dal 2008 fino al 2011, i rapporti con la famiglia Iannazzo per conto dei Giampà. Nelle parole di Angelo Torcasio, oggi in aula, si racconta una famiglia criminale capillarmente organizzata: "la mancanza di fondi nella cosiddetta 'bacinella'  - ha spiegato Torcasio - ha fatto si che Giuseppe Giampá architettasse un altro castello per rimediare soldi per le spese del clan: le truffe assicurative". Il boss sceglieva "ragazzi tranquilli" a cui intestare le macchine, preoccupandosi di trovare dei pezzi fittizi per il sinistro simulato, tutta la pratica, secondo Torcasio, sarebbe stata messa in piedi dall'avvocato Chicco Scaramuzzino, altre volte dall'avvocato Lucchino, i certificati medici sarebbero stati  firmati dal dottore Curcio Petronio, l'officina di riferimento era spesso quella di Franco Trovato, con un referente della Zurigo assicurazioni e un perito, Renato Rotundo, che avrebbero accertato il tutto. "Era un modo facile per fare soldi. -  ha poi commentato Torcasio - Rispetto alla vita che facevamo, le truffe assicurative erano niente". Un capitolo a parte, invece, nelle sue dichiarazioni, l'ha dedicato agli aiuti durante il periodo elettorale: secondo il collaboratore di giustizia alla cosca si sarebbero rivolti diversi politici e personaggi lametini e non. Angelo Torcasio, oltre a far parte del gruppo di fuoco, c’è da dire che era coinvolto anche nelle estorsioni ai commercianti confermando in aula la partecipazione alle richieste estorsive.

Un fiume d’informazioni sugli ultimi quindici anni di vita criminale della piana raccontati dal primo collaboratore di giustizia della cosca Giampá che nella prossima udienza di venerdì dovrà rispondere alle domande dei difensori per il controesame.

C.S.

© RIPRODUZIONE RISERVATA