Capire il momento presente per un cambio di paradigma verso un nuovo umanesimo

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I tentativi di fissare una cronologia della modernità e della post-modernità, intese come epoche, appaiono assai problematici, ma la consapevolezza di vivere in un’età separata da profondi cambiamenti, ci porta ai primi decenni del secolo XVI.

È stato autorevolmente scritto che la modernità comincia con una traduzione: quella del Nuovo Testamento in tedesco, a opera di Martin Lutero, nel 1522. L’affermazione è condivisibile, ma va integrata con una, parallela, ancor più fondamentale: la modernità comincia con un’altra traduzione, ovvero con la nuova traduzione latina del Vangelo, e soprattutto con l’edizione critica del testo greco, a opera di Erasmo da Rotterdam – pensatore profondamente imbevuto dei nuovi ideali della cultura rinascimentale e massima espressione dell’Umanesimo dell’Europa del Nord -, nel 1516. Il riformatore tedesco, infatti, condusse la sua versione proprio su questa edizione critica, la graeca veritas, come lui la definiva, tanto che gli studiosi sono concordi nell’affermare che, senza Erasmo, non ci sarebbe stata neanche Riforma. Ciò è tanto più vero, perché non si trattò solo di un’operazione di “scrematura”, per così dire, filologica, dopo la quale la cristianità non fu più la stessa, ma ad essa si accompagnò strettamente l’esigenza di ristabilire lo spirito vero del Vangelo, depurandolo dalle scorie che gli si erano accumulate sopra nel corso dei secoli, e ciò vale per Erasmo, prima ancora che per Lutero.

La post-modernità, quindi, che qualifica il nostro tempo, più che la fine della modernità, come l’etimo suggerirebbe, sembra che allu¬da alla sua trasformazione, resa dal sociologo polacco, Zygmunt Bauman, con l’immagine suggestiva del passaggio da “solida” a “liquida” (Modernità liquida, Laterza 2003). Un tempo la modernità era “solida”, cioè qualificata da coordinate politicamente istituite e socialmente stabili; il richiamo è a quei mondi definiti che si identificavano con le società nazionali e con quell’impianto sociale nel quale ciascuno sapeva chi era grazie al ruolo che copriva, nel contesto di un sistema di inclusione sociale, fondato sulla cittadinanza. Ora la modernità pare attraversata da un’onda di destrutturazione, di precariato, di riferimenti aleatori, con l’inevitabile crescita dell’angoscia, dell’instabilità, della perdita dell’orizzonte di senso, e con risvolti materiali negativi, quali disu¬guaglianze e povertà crescenti, diritti umani calpestati, violenza e guerre qua e là diffuse. Tale passaggio dalla modernità alla post-mo¬dernità conferma l’ipotesi che l’impianto valoriale della modernità, per quanto ben strutturato e con una vena aperta e creativa, soffris¬se di un’endemica debolezza, al punto da subire la trasformazione senza alcuna significativa reazione. Se nella modernità i legami erano soprattutto contrattuali, nella postmodernità sarebbe dovuta rafforzare la creazione dei legami comunitari.

Quale la sua debolezza?

La risposta è nella constatazione che la modernità non va intesa come sviluppo e maturazione della visione comunitaria della socie¬tà medievale, ma della dissoluzione dei suoi valori, che vengono abbandonati e, per molti versi, negati. Quali valori? Il primato del singolare sull’universale, del “prendersi cura” sul dominio, del dono sul diritto, della gratuità e/o gratitudine sulla pretesa o profitto. È questo il punto chiave da riconsiderare: la “modernità” non è la riformulazione dei valori della “comunità”, bensì lo scioglimento del sostegno e dei vincoli che la costituivano (Zygmunt Bauman, Una nuova condizione umana, VeP, Milano 2003): vincoli comunitari, fondati sulla dipendenza reci¬proca e personale, sullo scambio diretto, sulla mutua conoscenza, espressione di un circuito esistenziale, breve e controllato, con al centro la fiducia e la solidarietà.

Lasciando cadere il percorso genetico e le tappe di questo pas¬saggio, chiediamoci: qual è l’onda che ha fatto esondare il fiume comunitario in quello societario dando luogo allo Stato forte o al padre padrone e quali i nuovi valori? Si tratta di valori ispirati a principi sociali propriamente razionali e giusnaturalisti, frutto di rivoluzioni epoca¬li, dove al centro domina lo Stato con i cittadini della società; i legami non più personali e diretti, ma anonimi e collettivi, disciplinati da una sorta di “Contratto sociale”, frutto di un profondo rivolgimento cultura¬le oltre che politico ed economico. Solo uno Stato forte può governarlo e il prezzo è la libertà, da por¬re nelle sue mani. Sia nella versione del Leviatano (1651) di Thomas Hobbes sia nella traduzione della “volontà generale” di Rousseau, il Contrat¬to sociale (1762) bene esprime l’affermazione dello Stato forte, voce dominante in campo non solo politico ma anche religioso e etico. È Thomas Hobbes che, con estrema crudezza, sottolinea l’indole di tale svolta, rilevando che, privato della cornice religiosa e morale tradizionale, l’uomo si è ritrovato “lupo” per l’altro uomo, pronto ad aggredirlo qualora osasse contendergli il campo.

In sintesi, quando dal primato della fede (età medievale) si passa al primato della ragione (età moderna), si metterà in ombra e in dubbio quanto ereditato: l’esito inevitabile sarà la secolarizzazione e il venir meno del carattere gratuito del reale con la messa in crisi dell’alterità.

Non è irrilevante cogliere in questo articolato cammino storico il ruolo remoto della ragione e dei suoi diritti, con il loro taglio uni¬versale. È il compendio dei giganteschi passi innanzi maturati nell’età moderna. Si pensi all’Illuminismo del ’700 e alle sue molte versioni che fanno luce su un mondo oscurato dall’ignoranza dei più, susci¬tando il bisogno della trasparenza amministrativa e della libertà di pensiero – il cammino verso la democratizzazione della convivenza, sia pure arduo, è inarrestabile. Si pensi inoltre allo sviluppo del ca-pitolo della tecnica dell’’800 con cui diventa sempre più pervasiva l’industrializzazione. In breve, progresso, uguaglianza, ampliamento degli spazi di democrazia e tentativo sempre più esteso di sfruttamen¬to della natura, sono una sorta di compendio del cammino, a volte vorticoso, della modernità.

Con il primato della società s’impone il primato della politica sulla morale. In breve, l’individuo, perdendo la dimensione morale originaria e presociale, ridiventa soggetto sottomesso alla voce autoritaria dello Stato. In questo modo viene meno al dovere primario di imprimere un orientamento alla vita sociale, o comunque disattende il compito di contenere le distorsioni della società, ritrovandosi in sua balìa. Il singolo nella società non conta in quanto singolo. La voce del potere, espressione della volontà generale, comunque ottenuta, è supre-ma, fonte delle linee guida della convivenza.

Così l’Occidente è diventato terra della ragione e del primato dell’io, che permea di sé tutte le forme dell’essere, imponendo la condivisione della sua logica. Come uscire dalla “gabba d’acciaio” che Max Weber denuncia e problematizza?  (Etica protestante e spirito del capitalismo, 1905, Rizzoli 1991, p. 240). Da qui il compito di reinterrogarci intoro alle modalità di vita e di pensiero da mettere in campo per recuperare quella soggettività, che costituisce il tratto umano della nostra civiltà. Il che implica il trascendimento sia dell’individualismo occidentale che del comunitarismo collettivistico orientale, nel segno di quell’antropologia caratterizzata dalla libertà creativa, che parte dalla sensibilità filosofico-ecologica e teologica del Cantico delle creature di Francesco d’Assisi (enciclica Laudato sì, 2015). Il suo proposito, che ha ispirato la sua Scuola di pensiero, è di restituire a ciascuno lo spazio di libertà creativa, al fine di contribuire alla crescita qualitativa della comunità. Egli non si lascia guidare dal primato della ragione identitaria e normativa, strada che l’Occidente percorre, ma dal primato della volontà nella concezione non dell’essere come diritto–a-essere, ma dell’essere come dono–di–essere. Finché non ci si rende conto della necessità della potatura dell’albero della “conoscenza del bene e del male”, che ha guidato la storia lasciando nell’ombra la volontà, è impresa assai ardua introdurre la concezione secondo cui il mondo è un dono e nostro compito è di donarlo a nostra volta (ecologia integrale: economica, ambientale, sociale, culturale, della vita quotidiana, che protegge il bene comune e guardare a futuro).

Attenti alla vita sociale, i pensatori francescani del XIII-XIV secolo, vivendo insieme al popolo, non potevano considerare estranei i problemi socio-economici, dal momento che la loro scelta di fondo era di andare incontro alla gente e non incontrarla in luoghi remoti secondo lo stile benedettino, ma in città, condividendo la vita reale delle persone e delle famiglie, ponendosi dalla parte dei poveri con l’intenzione di inserire nello spazio dell’attività economica anche i poveri e gli esclusi, affinché nessuno si sentisse inutile ma protagonista nella comunità secondo le proprie potenzialità. Il nucleo del discorso economico francescano è formato dalla connessione tra la scelta personale e spirituale della povertà e l’abilità di analizzare il funzionamento della ricchezza, valutando la differenza tra cose necessarie e superflue; in altre parole, l’uso appropriato dei beni economici per soddisfare bisogni reali e specifici, separandoli da quelli superflui. Se possedere il capitale e lasciarlo inattivo è dannoso per la comunità, usare le ricchezze per metterle nel circuito produttivo è salutare, e il guadagno è legittimo. Il mercante-imprenditore è una figura indispensabile per lo sviluppo della società tanto che se in una comunità venissero a mancare, la collettività si troverebbe nella necessità di promuoverli (inventarli) con il rischio di minore professionalità (Giovanni Duns Scoto, Quaestiones in Libros Sententiarum, dist. 15, q.2, n.1). I maestri francescani della seconda metà del XIII secolo - da Bonaventura a Olivi, da Scoto ad Alessandro di Alessandria, da Astesano di Asti a Gerardo di Odone e molti altri –, si sono occupati di economia in maniera creativa, dando origine non solo ad un lessico economico, ma all’analisi cruciale per comprendere la logica del mercato in termini di utilità collettiva, genesi e fondamento della futura scienza economica. Come poi dimenticare quei frati che hanno dato vita nel XV secolo - passando dalla teoria alla prassi – alla felice idea dei Monti di Pietà, la prima forma organizzata di presenza sociale di carattere economico, gestita da poveri ma intraprendenti, che riescono a fare un’alleanza tra ricchezza e povertà per il ben-essere della collettività.

In conclusione, san Francesco e i francescani hanno insegnato che è possibile costruire un mondo dove il denaro alimenta lo sviluppo reale e condiviso senza diventare un idolo di potere. Gli affreschi dell’Allegoria del buon governo di Ambrogio Lorenzetti (1338) nel Palazzo pubblico di Siena offrono una visione tipicamente cristiana di una vita civica, che nasce dalla Sapienza biblica ed è guidata dalle virtù teologali (fede, speranza e carità) e cardinali o umane (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza) con l’aggiunta della concordia, la quale discende dalla giustizia. Sono immagini significative in cui si avverte sia la trasparenza spirituale e pastorale sia l’organizzazione e la concretezza sociale dei pensatori francescani.

In questo momento assai delicato della nostra storia e nelle incertezze ed indeterminatezze tipiche di ogni trapasso di civiltà, non è fuori luogo il ricorso al paradigma socio-economico francescano. Papa Francesco docet.

Oreste Bazzichi - Docente di Filosofia sciale ed etica economica alla Pontificia Facoltà S. Bonaventura-Seraphicum (Roma)

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