Calabresi, pregiudizi e stupidaggini (Seconda puntata)

Scritto da  Pubblicato in Filippo Veltri

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filippo_veltri.jpgL’immagine stereotipata del calabrese - di cui ci siamo occupati nel blog della scorsa settimana - subisce, nel 1783, un mutamento radicale: la melanconia viene reinterpretata in impotenza e indolenza. L’angelo della Melancolia di Durer diventa, nella Calabria del dopo terremoto, un’immagine di indolenza e passività nei confronti delle sventure non imputabili ai governi. Questa nuova lettura - scrive sempre acutamente il prof.Giuseppe Gangemi, dell’Universita’ di Padova - dura a lungo e riappare ciclicamente o per accusare o per incentivare a uno sforzo di volontà per uscire da questo destino. Una rappresentazione - una donna seduta sulla soglia di casa subito dopo quell’apocalisse – e’ stata ritrovata in un sussidiario alle elementari, negli anni ‘50. Il sussidiario faceva trasparire la paura che quei giovani scolari calabresi con l’argento vivo addosso, si lasciassero travolgere, crescendo, dall’indolenza imputata ai calabresi adulti. Il maestro costrinse tutti a imparare a memoria la filastrocca (e altre storie analoghe). Per quanto la filastrocca non fosse stata immaginata con riferimento ai calabresi, è stata spesso usata in Calabria a futuro monito dei giovani per invogliarli a non lasciarsi travolgere dal vizio atavico dei loro genitori e antenati. Anche questa evoluzione (dalla melanconia alla indolenza) ha una plausibile spiegazione.

"La mia idea - scrive Gangemi - è che le classi dirigenti del tempo del terremoto abbiano voluto imputare alla gente comune di Calabria, non tanto il terremoto, che è stata una fatalità, ma certamente il dopo terremoto, tutto quello che è successo dopo (inefficienze amministrative, epidemie che potevano essere contrastate meglio, corruzione e furto legalizzato - versamento alle casse dell’erario - di metà dei fondi della Cassa Sacra). Date queste pesanti responsabilità, l’imputazione di indolenza si è rivelata necessaria e urgente’’. Con il terremoto del 1783, a queste denigrazioni si aggiunge quella secondo cui in Calabria ci sono molti briganti. Un viaggiatore austriaco, Johann Heinrich Bartels, nel 1786, trovando falsa o esagerata questa affermazione, secondo cui i calabresi siano briganti,ipotizza che ci sia “un qualche segreto interesse se le cose stanno così e non diversamente”. In una diversa lettera, egli rivela questo segreto: è la paura della rivoluzione il segreto che porta a denigrare i calabresi. Paura che, racconta sempre Bartels, nasce dalla consapevolezza che già un monaco visionario - Tommaso Campanella- era riuscito a fomentare lo spirito di rivolta e aveva convinto migliaia di calabresi, appartenenti a tutti i ceti, della necessità di una rivoluzione per realizzare un regno utopico. "E figuriamoci - conclude Gangemi - cosa avviene dopo che la rivoluzione i calabresi la fanno sul serio nel 1799. Vincenzo Cuoco, Pietro Colletta e Carlo Botta riprendono le ingiuste accuse rivolte ai calabresi nel dopo terremoto e le rilanciano gonfiate. E da allora in poi è stato tutto un procedere veloce lungo la china così tracciata (ci vorrà poco perché un episodio di cannibalismo nella Napoli del 1799 venga, lentamente, attribuito ai calabresi i quali, con Lombroso, vengono etichettati come delinquenti nati e “cannibali”)’’.

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