La Calabria, la sua storia, l’autodistruzione

Pubblicato in Filippo Veltri

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 DI FILIPPO VELTRIfilippo_veltri

Una pregevole intellettuale calabrese, Maria Franco, quest’estate appena conclusasi mi ha segnalato alcuni testi dello scrittore veneto-calabrese Giuseppe Berto, che racchiude alla perfezione lo stato dell’arte calabrese. E’ assai utile fare conoscere il testo diffuso dalla Franco, perche’ spesso ci mancano le parole per fotografare la situazione nella quale viviamo ed invece qualcun altro quelle parole le ha gia’ usate.  Cosi’ scrive Berto: ‘’ora io non ho paese né luogo al mondo, ho solo questa terra dei suoi racconti e della mia memoria, questa è la terra alla quale posso in qualche modo appartenere.Di solito uno appartiene a due luoghi: quello in cui è nato e quello dove gli piacerebbe vivere. E’ uno degli elementi della nostra inquietudine questo, perché poi accade che se si sta in uno dei due luoghi ci si sente un po’ infelici di non stare nell’altro. Comunque appena la vidi seppi che quella terra dalla quale si scorgevano quelle magiche isole era la mia seconda terra, e qui infine sono venuto a vivere. Il tratto di costa che culmina in Capo Vaticano è pieno di storia e di bellezza. Si potrebbe chiamarlo Costabella, con un pizzico di rimpianto e nostalgia... appena la vidi, seppi che quella terra dalla quale si scorgevano quelle magiche isole, era la mia seconda terra, e qui sono venuto a vivere. Sto su di un promontorio alto sul mare, una punta di granito troppo vecchio che si sfalda precipitando. E’ un panorama stupendo.

E quando dalla punta del mio promontorio guardo gli scogli e le spiaggette cento metri sotto e il mare limpidissimo che si fa subito blu profondo, so di trovarmi in uno dei luoghi più belli della Terra. Spesso, stando lì a guardare, arrivo a dimenticarmi di dove sono, tanto completamente mi appago di quella bellezza e del pensiero senz’altro egoistico ch’essa è mia, mi appartiene... Si chiama così perché è un posto sacro: nell’ antichità i sacerdoti vi andavano ad osservare il volo degli uccelli e altre cose, e ne traevano vaticini. Duecento metri al largo c' è uno scoglio, chiamato Mantineo, e in greco ‘mantéuo’ vuol dire interpretare la volontà divina”. Di fronte, la sconfinata bellezza siciliana: “…l’isola degli aranci sta dall’altra parte celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza, e in mezzo c'è un piccolo tratto di mare proprio piccolo ma non ho il coraggio di passarlo, padre non ho coraggio, (...) e del resto non tutti coloro che volevano la terra promessa poterono giungervi, non tutti furono degni della sua stabile perfezione, e così verso sera cerco un posto da dove si possa guardare la Sicilia, di notte l’altra costa è una lunghissima distesa di lampadine con segnali rossi e bianchi (...) ecco qui mi costruirò con le mie mani un rifugio di pietre e penso che in conclusione questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte.Però è un fatto che la ricchezza materiale giunta in Calabria all’ improvviso e in non sufficiente misura ha reso la regione più brutta, più inospitale, più scontenta e violenta”. (Nel 74, scriverà «concordo con Pasolini. Raramente mi capita ch’ io concordi in quel che fa o dice Pier Paolo Pasolini, e quando capita mi rattristo, non per me naturalmente, per lui, dato che a pensarla come la penso io c’è da tirarsi addosso i rabbuffi o addirittura gli insulti degli intellettuali radical-marxisti, e lui se ne dispiace»)

Osserva Berto:  «L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti  è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili… La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo… (I calabresi)… si sono messi fervidamente al lavoro e, bisogna riconoscerlo, hanno sbagliato quasi tutto. E’ sorprendente come siano riusciti, in un tempo tutto sommato neanche tanto lungo , a rovinare bellissimi paesaggi con brutte costruzioni, a trasformare siti fino a poco fa campestri in luoghi pieni di cartacce… A parer mio, tutto questo è sbagliato… Potessero costruirci un bel grattacielo ve lo costruirebbero subito, magari arieggiante alla pensilina tranviaria… Invece i calabresi, se vogliono attirare turisti dal nord o dall’estero, dovrebbero preoccuparsi di offrire cose che altrove non si trovano più, e cioè oltre al loro mare, quiete solitudine, paesaggi integri, cose semplici… … per cui succede che molti di coloro che deturpano paesaggi con costruzioni orribili sono intimamente convinti di abbellirlo con capolavori architettonici. Contro queste forze ancorché preponderanti si potrebbe combattere.

Il guaio grosso è che il calabrese è mosso da un irrefrenabile stimolo di autodistruzione che, per quanto riguarda l’ecologia, ha le sue radici in un senso di inferiorità collettiva. I calabresi sono i primi a non credere alla bellezza e all’altezza della loro civiltà, che è una civiltà contadina. Per essi la civiltà contadina è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di disprezzo, vero o supposto, da parte di altre popolazioni economicamente e tecnicamente più progredite. E’ comprensibile, quindi, che essi vogliano cancellare le vestigia di tale civiltà.… al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili sono a dir poco incivili… Ora, la civiltà contadina era sì miseria… ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile… I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali». La lunga citazione di Berto serve per dire una cosa sola: quello stimolo dell’autodistruzione di cui parla il grande scrittore di Mogliano Veneto e’ forse il tratto di ieri ma anche di oggi. Quello – al di la’ di tutto – e’ il male da combattere. Non tanto oscuro – per restare sempre nell’ambito delle citazioni di Berto – ma assai complicato da combattere e quindi da vincere.

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