Banditi e Briganti di Enzo Ciconte. Rivolta continua dal Cinquecento all’Ottocento

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Di Francesco Bevilacqua

Ci occupiamo oggi di un tema di grande rilevanza per capire come si sia venuto formando, nella storia, un immaginario collettivo che ha fatto della Calabria una terra selvaggia abitata da genti irriducibili alla causa della legalità. Sembra una maledizione, ma la storia ha davvero condannato senza appello questa regione: in epoca classica con l’odio romano nei confronti dei brettii, i quali, a causa della loro inimicizia verso l’Urbe, furono espropriati delle terre, condannati ad un ruolo servile e successivamente oltraggiati per esser stati – secondo la leggenda – proprio di stirpe brettia in soldati che crocifissero Gesù; tra il Cinquecento e l’Ottocento il brigantaggio; in epoca moderna la ‘ndrangheta.

Il tema di oggi è quello del brigantaggio (ce ne siamo già occupati in questa rubrica con i romanzi di Nicola Misasi e di Luigi Guarnieri). Giunge ora, fresco di stampa, un libro dalla bella veste grafica, ricco di illustrazioni e dai contenuti di notevole interesse, dello storico Enzo Ciconte, già noto per i suoi lavori sulla mafia. Il libro si intitola Banditi e briganti, rivolta continua dal Cinquecento all’Ottocento.

Si tratta ovviamente di un saggio storico, ma dal taglio eminentemente divulgativo. La novità rispetto a precedenti analoghi, è proprio questa, insieme alla completezza cronologica del volume, visto che Ciconte racconta tutta la vicenda del banditismo e del brigantaggio nell’Italia intera, indagandone le ragioni storiche, i risvolti leggendari, le implicazioni sociologiche, le matrici antropologiche, i riferimenti letterari. All’interno del volume una straordinaria quantità di riproduzioni di quadri, disegni, foto d’epoca sui fatti e i personaggi narrati, che rendono il libro davvero prezioso.

L’aneddoto di Francesco Saverio Nitti riportato sul retro del volume dimostra come in molti abbiano creduto per secoli che il brigantaggio, più che un fenomeno, fosse una sorta di problema razziale o genetico. Questo atteggiamento si deve essenzialmente alla cattiva reputazione che le truppe d’occupazione napoleoniche durante il cosiddetto “decennio francese” (1806/1815) diffusero in patria e poi in tutt’Europa, sugli abitanti del Sud Italia, che erano insorti contro di loro. Da quel momento gli italiani del Sud furono, indistintamente, “briganti”.

Ma andiamo per ordine e vediamo di raccontare il fenomeno del banditismo e del brigantaggio secondo la stessa ricostruzione di Ciconte. Il termine brigand, spiega Ciconte, in realtà viene introdotto proprio dai francesi e surcalassa quelli più antichi di latrones, ossia ladri di strada, e di banditi, cioè di soggetti espulsi o fuggiti dalla comunità per motivi diversi, che scelgono la macchia, il bosco, come rifugio, da dove partire per vendette e razzie.

La prima ondata di ribellismo banditesco si ebbe sotto la dominazione spagnola, tra il Cinquecento ed il Seicento. Mentre nel Cinquecento vi era stata una cospicua ripresa economica, come dimostrano gli studi di Giuseppe Galasso, dal 1620 in avanti si ebbe una graduale decadenza della vita civile del Sud Italia. Carestie, scorrerie piratesche, crescita della pressione fiscale (per effetto della Guerra dei Trent’anni tra Francia e Spagna), decadenza delle antiche attività economiche, scarsi investimenti da parte del ceto proprietario,  calamità come il terremoto del 1638, la peste del 1656 e quella del 1659, portarono condizioni di grave indigenza soprattutto negli strati bassi della popolazione.

A ciò si aggiunga il fenomeno degli arbitrari infeudamenti dei paesi, costretti a pagare esosi riscatti per liberarsi. Non può meravigliare – ha osservato Lucio Gambi in un libro sulla Calabria da noi già recensito in questa rubrica – che in una situazione di così grave arretratezza e sopraffazione, si manifestasse l’unica reazione possibile da parte di genti disperate, ossia il banditismo o il brigantaggio. Da un lato vi era il governo centrale, con la sua assenza-rapacità, che imponeva tasse e balzelli ma nulla dava in cambio, soprattutto in termini di giustizia e sicurezza. Dall’altro vi erano i baroni locali che reclamavano autonomia dallo Stato centrale e pur tuttavia rimbalzavano le imposizioni e l’esosità fiscale sui sudditi, tiranneggiavano indisturbati in totale assenza di diritto, si impossessavano di terre demaniali e di quelle gravati da usi civici.

Nel mezzo di questo conflitto vi erano le plebi, sprofondate nella miseria più nera, sfruttate dai baroni in modo inimmaginabile, usurate da carestie, epidemie, guerre, che reagivano con gesti briganteschi e rivolte. Per cui, già nel XVI secolo la Calabria, secondo lo storico Fernand Braudel, era produttrice di briganti ancor più che di seta.

Già a quel tempo, il banditismo aveva come obiettivi baroni, vescovi e grossi mercanti (ossia le classi ricche) ed otteneva la solidarietà attiva delle popolazioni di braccianti e pastori. Poiché la violenza era rivolta solamente verso i ricchi, nacque l’alone leggendario del brigante che toglie ai ricchi per dare ai poveri. Alone che, per la Calabria, troveremo amplificato nella narrativa di Nicola Misasi.

Ma, già a quell’epoca, commenta Ciconte, a questa matrice banditesca, si aggiunse quella dei delinquenti assoldati dagli stessi baroni per difendere i propri abusi o per danneggiare scomodi concorrenti. Contraltare alla efferatezza del banditismo fu la spietatezza della repressione, che, nella furia impotente, colpì ogni tipo di connivenza e fece spesso strage di innocenti, rei solo di essere sospettati di sedizione o di foraggiare i banditi. L’occupazione francese produsse la seconda, veemente ondata di brigantaggio. Furono considerati briganti, indistintamente, sia i delinquenti comuni che chi si ribellava all’occupazione.

La durezza e le atrocità dell’esercito francese da un lato, ed il piano del cardinal Fabrizio Ruffo per riconquistare il regno ai Borboni (che faceva leva sull’odio delle classi povere verso i borghesi, detti “galantuomini”, sospettati di connivenza con i francesi) produsse un fenomeno di vera e propria guerriglia bene organizzata e diffusa. In poco tempo il cardinale raccolse un’”armata della santa fede” (da qui il termine di sanfedismo dato alle insorgenze). Di questa armata facevano parte moltissimi criminali ai quali era stato promesso l’indulto. Il brigantaggio si scatenò in modo incontrollabile, a scapito anche dei cittadini dei paesi, poveri o ricchi che fossero. Nel 1808 fu inviato al Sud il generale Manhès, il quale operò una repressione ferocissima, che si basava su una regola semplice quanto efficace: interrompere i rifornimenti  e colpire i fiancheggiatori delle bande. Fu all’uopo emanata la cosiddetta “legge del ristretto del pane”. Tra taglie sulle teste dei briganti, favori per le delazioni, controlli severissimi sulle derrate alimentari e sul bestiame, divieto di uscire dei centri abitati pena l’immediata fucilazione, arresti in massa dei familiari e dei parenti dei briganti, Manhès potè trucidare centinaia e centinaia di briganti o presunti tali, mettere a ferro e a fuoco interi paesi, stuprare le donne, torturare gli uomini e dichiarare, così, nel 1811, che il brigantaggio era stato domato.

In realtà, ad essere domato, fu il brigantaggio antifrancese, ma il brigantaggio come abitudine dei poveri di darsi alla macchia durò ancora per molto tempo. Ad alimentarlo, scrive Ciconte, era l’atavica fame di terra dei contadini, che, da sempre, avrebbero voluto utilizzare le terre demaniali usurpate dai baroni. Ma a volere le terre dei latifondi era anche la borghesia professionale e commerciale, nuova classe emergente. E fu questa ad avere la meglio quando, dopo la legge eversiva della feudalità (1806), riuscì ad acquistare gran parte delle terre liberate. Fu così che i contadini poveri persero gli usi civici su quelle terre. Ma quand’anche ci avessero provato, i contadini, ad acquisire piccoli appezzamenti di terreno, non furono in grado di coltivarli per mancanza di adeguati mezzi finanziari e furono costretti a rivendere i terreni ai ricchi borghesi. “Il fallimento è tanto più cocente – scrive Ciconte riferendosi ai francesi – per chi ha avuto il coraggio di introdurre leggi sull’eversione della feudalità che non avranno i risultati sperati proprio sul terreno della formazione della piccola proprietà terriera che avrebbe potuto prosciugare l’immenso mare dove ha pescato il brigantaggio”.

La restaurazione borbonica fu segnata da una persistenza del brigantaggio, come logica conseguenza della mancata soluzione di quella fame di terra di cui poc’anzi si diceva. Ed i briganti, da amici dei borboni all’epoca dell’occupazione francese divennero nemici dello stato borbonico. La borghesia proprietaria mantenne i privilegi acquisiti ma non ebbe accesso alle leve di governo, riservate comunque all’aristocrazia. A combattere i briganti vennero chiamati funzionari e militari che usarono gli stessi metodi del generale Manhès. Questa volta la parola d’ordine fu “salutare terrore”. Furono anche rinvigorite le guardie urbane, gruppi di cittadini autorizzati, cioè, ad intervenire militarmente in caso di scorrerie di briganti.

Crebbe in Calabria un brigantaggio minuto, dedito ai piccoli furti ed al danneggiamento. In ogni caso i Borboni scontentarono tutti: i latifondisti perché, con un decreto del 1843, ordinarono loro di dimostrare a che titolo possedessero le terre usurpate, ed i contadini perché comunque non riuscirono a risolvere i loro problemi. In Calabria si celebrò l’epopea di Giosafatte Talarico, di cui abbiamo già parlato a proposito del libro di Nicola Misasi: il brigante si arrese solo dopo una trattativa che gli consentì di concludere la propria vita da uomo libero ad Ischia ad appannaggio dello Stato che gli elargì una pensione. Fu il suggello definitivo al mito del brigante imprendibile, generoso, spietato e scaltro.

Arrivarono le rivolte del 1948, sempre per l’occupazione delle terre. I contadini poveri che insorsero vennero definiti “comunisti”, perché volevano spartirsi le terre demaniali usurpate da nobili, borghesi ed ecclesiastici. Finiti i moti, ricominciò il brigantaggio. Venne inviato in Calabria prima il marchese Ferdinando Nunziante, poi il generale Gaetano Afan de Rivera. Entrambi agirono con i soliti metodi repressivi e per nulla selettivi: ancora arbitri, ancora uccisioni e carcerazioni di innocenti, ancora stragi.

E arriviamo all’ultimo atto: l’Unità d’Italia e la conquista piemontese. Nel 1960 Garibaldi, appena sbarcato in Sicilia, firmò un decreto, suggeritogli da Francesco Crispi, con il quale assicurò la spartizione delle solite terre tra quanti si sarebbero battuti per la patria. In poco tempo però il decreto viene reso inoffensivo e la situazione tornò ad essere tale e quale a prima. La borghesia usurpatrice, furbescamente, si schierò dalla parte dei Piemontesi per garantirsi il perdurare dei propri privilegi. I poveri del Sud insorsero ancora una volta attraverso l’unico strumento possibile, il brigantaggio, che, contro i piemontesi, divenne una vera e propria guerriglia a tutto campo.

Sembra un’analisi semplicistica, ma è attraverso il ribellismo che, da sempre, vengono combattuti i grandi poteri le grandi forze militari: è l’unica forma di “guerra” che può essere sostenuta da chi non ha eserciti ed organizzazione sufficiente. Ed è, da sempre, quella più difficile da contenere, perché fa leva sulla vastità e l’asperità del territorio, sull’astuzia e la sorpresa, sulla segretezza, sulla simpatia delle popolazioni locali.

E l’ultimo atto fu anche il più feroce ed amaro. Alla crescita esponenziale del brigantaggio dopo l’Unità contribuirono vari fattori: il primo è, l’abbiamo detto, la consapevolezza che ancora una volta l’avrebbero avuta vinta gli usurpatori delle terre; il secondo è una vaga simpatia per i borboni; la terza è la coscrizione obbligatoria nell’esercito sabaudo alla quale molti giovani si sottrassero dandosi alla macchia. Si pose mano, è vero, ad un timido piano di quotizzazione di piccoli appezzamenti di terreno tra i contadini. Ma accadde, come sempre, che i contadini non trovarono fondi sufficienti per mettere a coltura i terreni e questi ritornarono a basso prezzo nelle mani dei latifondisti.

Sotto il governo di Bettino Ricasoli venne, ancora una volta, la repressione. Durissima e spietata come non mai. Ne abbiamo parlato con la recensione del romanzo di Luigi Guarnieri I sentieri del cielo. La barbarie della repressione con metodi ancor più feroci di quelli dei francesi venne accompagnata da una scaltra campagna di disinformazione: le regioni del Sud erano ancora una volta abitate dai diavoli, e contadino equivaleva a brigante. Se non si era brigante si era fiancheggiatore. I meridionali divennero, così, una razza maledetta, come abbiamo visto recensendo il saggio di Vito Teti che ha per titolo, per l’appunto, La razza maledetta. Venne, infine, decretato lo status quo in ordine alla questione demaniale con una legge del 1876, che legittimò l’usurpazione delle terre.

Intanto, nel 1863 era stata emanata la famigerata Legge Pica che diede poteri speciali ai militari. Non è possibile riportare qui la mole di informazioni contenute nel libro di Ciconte circa questo periodo crucciale della storia della Calabria e di tutto il Sud. Per tutti basti il giudizio di Antonio Gramsci: “Lo Stato italiano […] ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.

Ed ecco le cause reali della sconfitta del brigantaggio antisabaudo secondo Ciconte: la grande emigrazione transoceanica, che ridusse la pressione sociale; le predicazioni socialista e cattolica, che incanalarono verso forme di protesta sociale lecite le rivendicazioni dei contadini poveri del Sud. Il brigantaggio uscì, così, dalla “storia” ed entrò definitivamente nel “mito”.

Infine, la tesi di Ciconte è che non vi è connessione tra il brigantaggio e le mafie. I luoghi comuni che vogliono le mafie come prosecuzione del brigantaggio nascono dall’esigenza dei mafiosi di nobilitare le proprie origini e di connettersi ad un malcontento che in qualche modo giustifichi le loro gesta.

Enzo Ciconte

Banditi e Briganti

Rubbettino

Soveria Mannelli 2012

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