Ci si ritrova solo smarrendosi

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco_bevilacqua.jpgDopo 35 anni di viaggi pedestri in Sila, ancora desidero esplorarne i recessi più nascosti. E non mi basterà l'intera vita per conoscerla tutta (come per le altre montagne della Calabria). Ma ci sono anche luoghi, in Sila, che conosco bene. Dove non posso fare a meno di tornare almeno una volta l'anno. Come per un pellegrinaggio. Come per un rito. Come in un sogno ricorrente. Ho bisogno di avere conferma della mia esistenza dentro di loro. Perché loro esistono dentro di me anche quando sono lontano, perso nelle nostre artificiose vite cittadine. E ne percepisco il silenzioso richiamo. Percorro una stradina malmessa. In mezzo ai pini. Ho guadato il Neto di Fallistro. Già questo è un piccolo ostacolo per le comitive caciarone, che devono necessariamente avere sotto il culo qualcosa che impedisca loro di deambulare: cavalli nel migliore dei casi, quad, moto e auto fuori strada nel peggiore. Ma le gambe no. Per questa gente, come dice Thoreau, le gambe servono solo a sedercisi sopra. E, aggiungo io, un motore è l’illusoria certezza di essere più forti della natura. Che, invece, dicevano gli antichi greci, è l’ordine immutabile e increato che nessuno può soggiogare, nemmeno gli dei. La natura è il regno di “ananke” (la necessità). Tutto vi accade perché deve accadervi. Non si muore perché ci si è ammalati, ma ci si ammala perché si deve morire: così ragionavano gli antichi greci. E non sarò io, non sarai tu, non saremo noi uomini ad infrangere impunemente questa regola scritta a caratteri di fuoco sul destino del mondo. Perfino Prometeo, nella tragedia di Eschilo deve ammettere: la natura è più forte della tecnica. Quella di settembre è la luce più bella dell'estate. E un annuncio d'autunno. Un presentimento di colori immaginifici. A tratti i pini sono altissimi. Ricresciuti rigogliosi dopo i saccheggi dei secoli passati.

Le loro ombre sono umane. Come di guerrieri impietriti. Come di sentinelle silenziose. Sulla lettiera delle foglie di faggio, fatte di capriolo a piccoli mucchi. Dev’esserci un lupo, da qualche parte, che ci spia con i suoi occhi gialli, luminescenti. Saliamo sul poggio di Macchia Fraga, puntellato di pruni selvativi. Si apre la vista del Lago Cecita e delle montagne a nord: Volpintesta, Principe, Arnocampo, Sordillo. E a sud: Porcina, Righio di Brasacchio, Botte Donato. Saliamo ancora sino al belvedere celato che scoprimmo sul boscoso Timpone Calcara. Pini ed abeti contorti, sferzati della furia degli elementi. E lontano l’Orsomarso e il Pollino. E vicino il labirinto di valli che scendono verso il Neto. E foreste a perdita d’occhio. Qui, una volta mi spersi. Troppo presto, ritrovai la via. Ogni volta che ritorno desidero smarrirmi ancora. Perdere la ragione. Lasciare che i sensi si dilatino, che l’istinto prevalga. Gettar via carte a bussola, come fa Franco Michieli (da leggere il suo “La vocazione di perdersi”, Ediciclo editore). Lasciarsi guidare dall’intuito. Vagare senza tempo. Pronto a trascorrere la notte accanto ad un improvvisato fuoco da campo (e a me è accaduto). Lasciare che il cuore contamini la mente. Inizia la discesa, ad anello. Tre rami alti del Neto convergono qui, sino al prezioso smeraldo della valle di Macchianello. Poi, il Neto s’incassa ancora, sino a Fallistro. Un altro pellegrinaggio. Un altro rito. Un luogo reale e simbolico nello stesso tempo. Qui, non ho bisogno di ricordare Freud o Jung, non ho necessità di un sogno da interpretare, per capire che l’unica foresta in cui posso, forse devo perdermi, talvolta, sono io stesso. I miei cammini, le erranze, gli smarrimenti, i ritrovamenti, ne sono la prova. Ci si ritrova solo smarrendosi.

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