Cibo: poesia della terra

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco_bevilacqua.jpgSono a casa. Per il desinare. Solo. Capita molto di rado. Ho ancora negli occhi il crepuscolo dalle dita rosate (lo so che Omero diceva così per l’aurora) veduto qualche sera fa sul Lago Cecita. Mi sovvengono le parole di Jacques Dupont, già priore della Certosa di Serra San Bruno a proposito del cibo (nel libro intervista di Luigi Acattoli "Solo dinanzi all'Unico", Rubbettino editore). Padre Jacques dice che il mangiare è, per il monaco, una liturgia. Dallo stendere la tovaglia al raccogliere le briciole. La si esegue sempre dinanzi alla finestra della cella. Che dà verso le montagne e i boschi. Lentamente. Una breve preghiera. Poi il fare entrare dentro il corpo le poesie della Terra. Una comunione col cosmo. Dice proprio così Padre Jacques: "E' per via dell'assunzione e dell'assimilazione del cibo che si entra corporalmente in comunione con tutta la realtà cosmica". Non è Buddismo. Non è Taoismo. Non è New Age. E' Cristianesimo illuminato, non dogmatico, non integralista. E' lo spirito di un uomo che vive la propria religiosità senza frontiere, senza pregiudizi, senza presunzione. Provo ad uscire dalla routine. Apro tutte le imposte. Entrano nella stanza le montagne e i boschi che fanno da corona alla mia casa. Le fronde delle querce stormiscono nel vento. Il sole è alto e luminoso e abbacinante. La TV resta chiusa. Prima o poi la metterò in cantina. La osservo e la sento estranea, dannosa. Ho comprato delle uova da una campagnola. Ho preso il pane appena sfornato, ancora caldo. Le uova nel tegame sfriggono liete, come il gorgoglio di un ruscello. Stendo una piccola tovaglia. Il desco. San Nilo da Rossano, nella sua grotta sui monti del Mercurion aveva una grande pietra piatta che era desco e altare nello stesso tempo. Taglio un pezzo di pane fumante. Condisco le uova con un po' di pomodoro. Riempio un bicchiere d'acqua. Mi siedo. La natura penetra nella stanza ed in me. Lontano, in alto, l'amato crinale di Monte Capo Bove si distende come una schiena muscosa. Il tempio di tante mie celebrazioni religiose in cammino. Gli ontani, i cerri, i pini, i faggi che conosco uno ad uno. Sento che la visione mi invade piano. E dalle mie labbra sgorga una breve preghiera di grazie. Per essere vivo. Per avere una famiglia. Per avere del cibo e una casa. Per avere un lavoro. Ma, soprattutto, per non sentirmi smarrito e solo e senza un senso nell’universo. Provo ad azzerare i pensieri. Le ansie, le sofferenze, le preoccupazioni, le incomprensioni, i disagi verranno al momento opportuno. Spezzo il pane fragrante e con esso raccolgo un po' di cibo. Lo porto alla bocca. Ne sento il profumo. Assaporo piano. Come Padre Jacques. Lascio che il cibo abbia in me l’effetto di un medicamento. Non ho mai mangiato per ansia, compulsivamente, ossessivamente. Come fa gran parte della gente. Subisco i ristoranti. Non mi piace che si cucini per profitto. Il miglior ristorante, per me, è quello di casa propria o quello degli amici veri. Vengo accusato di non avere il gusto del mangiare. Ma se il gusto del mangiare è ingurgitare avidamente quantità di cibo artefatto, io davvero non so mangiare. Più semplicemente mi nutro. Non mi illudo che non entrino veleni nel mio corpo, in qualche modo. Siamo esposti, tutti. Abbiamo contaminato la Terra. Ma mettere nel mio corpo la poesia della Terra, per me, è davvero un gesto sacro. Ho finito. Sono sazio. Le fronde degli alberi fuori stormiscono ancora. Il cielo biancheggia sui monti. Un torpore lieve mi invade. La poesia della terra è entrata in me. Il cibo è arrivato al cuore.

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