Il giardiniere della Sila piccola

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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 Io li chiamo “anelli”. Gli altri li liquidano come “arte dei pazzi”. E io sono ben felice di praticare quest’arte, di non far parte della congrega dei savi cui allude Erasmo da Rotterdarm nel suo famoso “Elogio della follia”. E per favore non chiamatele escursioni: mi sa di una roba militare o ginnica. A me piace definirli “cammini”. Come i cammini dell’anima e dello spirito. Come le ricerche e gli smarrimenti.

C’è sempre un’inconscia componente mistica nel partire da una valle, salire sulla cima di una montagna, scendere nella valle opposta, risalirne il corso per un po’ e poi tornare a valicare la stessa dorsale e riscendere nella prima valle ma per un’altra via. “Ma perché lo fate?” Le persone normali non possono capire. Loro passeggiano, tutt’al più, sulle strade asfaltate, perfino attorno ai paesini di montagna. Ben protetti dal rombo delle macchine che sfrecciano, dall’odore aromatizzato dei gas di scarico. Eppure avrebbero a portata di mano una miriade di sentieri nei boschi da solcare! No, lì non vanno: c’è il pericolo! Che poi è solo la paura di ciò che è incognito. Eppure quella dovrebbe essere la loro casa. Li vedo, uomini e donne, a piccoli gruppi, fare esercizio fisico ai margini della strada, mentre rientriamo dal nostro cammino domenicale. E penso a quel che ho vissuto oggi: il mio primo cammino serio dopo la degenza in ospedale, dopo l’intervento. Una sorta di prova, fisica e psichica. Doveva essere qualcosa di semplice. E invece, mentre arranco dal Lago Ampollino verso il Monte Scorciavuoi, prende corpo, dentro di me, l’idea di modificare il percorso prestabilito, sicuro. La scusa è che voglio condurre gli altri in luoghi che non hanno mai visto. Ma la verità è ben celata dentro di me: ho bisogno di ritrovarmi; e per trovarmi devo prima tentare di smarrirmi.

Dunque, dalla cima punto a memoria la valle del Tacina, sul lato opposto della montagna, verso sud. Il vecchio sentiero è scomparso. La foresta, abbandonata a se stessa, ha ritrovato il suo caos naturale. Accendo il navigatore interiore. Che è fatto di ricordi, di sensazioni, di vissuti, di narrazioni. Uno dei miei compagni dice “ma qui ci si potrebbe perdere!”. Anch’io ho questa sensazione. Rivedo i miei punti di riferimento mnemonici. Non so come abbia fatto a sedimentarli dentro. Mi sento eccitato, preoccupato, piccolo … Eppure gioisco soavemente quando raggiungiamo la confluenza di due ruscelli: la conferma che ho ritrovato la via. E che mi sono ritrovato. Il cammino è ancora lungo. L’antica strada di esbosco della Val di Tacina, il bosco maestoso, il lamento del cuculo, il guizzo delle trote nella “madre di tutte le fiumare”, come definì il Tacina l’ultimo vecchio pastore di questi luoghi, tanti anni fa. Dormiva per tutta l’estate, solo, in una baracca di legno. Poi la meravigliosa apertura delle gole sulla grande testata valliva, tappezzata di prati: una valle delle Grandi Pianure dell’ovest americano. Tre cinghiali grufolano sulla pendice di fronte. Le fioriture sono esplose in tutta la loro bellezza. “Meravigliosi questi prati in fiore – dissero qualche anno fa i soci della International Dendrology Society, accompagnati qui da Franco Tassi e da me - … ma chi li ha piantati?” Li ha piantati l’anima della Sila! Ecco chi li ha piantati! E’ lei il sublime giardiniere che protegge, accudisce, rende vivi questi luoghi.

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