La preghiera della cascata, al paese degli uomini veri

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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  In chiesa, ad ascoltare estasiato le donne di Platania salmodiare il Rosario: la prima cosa fatta, ieri, sabato, appena giunto in paese. Ho creduto che fosse perché sono sempre stato attratto dalle piccole chiese di paese. Ora so che non era quello il motivo. Mentre attendo, fra i ciliegeti alti di Panetti, l’ultimo gruppo di visitatori da accompagnare alla Cascata della Tiglia, riconosco il viso. E’ quello dell’ottuagenaria, capelli d’argento, che ieri sera stava fra le oranti e il cui sguardo ieratico aveva attratto la mia attenzione. Mi ero soffermato su quegli occhi umili, quell’espressione di grazia, quella dolcezza malinconica. Avevo serbato dentro il mio cuore, senza avvedermene, le fattezze della donna. Ed ora ecco quel volto venirmi incontro nel sole a picco del mezzodì, nella controra estiva, durante la quale i contadini giacciono, immobili, all’ombra delle querce, per sfuggire ai demoni dell’aria. Vincenzina è insieme ad altre due donne poco più giovani, Pina e Michelina. E ad una comitiva variegata, fatta di uomini in età, adulti, giovani e persino bambini.

Il viso calmo di ieri nell’ombra fresca della navata è arrossato dal caldo e dalla fatica. Ma sorride. Solleva gli occhi alla cascata. Lo stupore trabocca da una mente che d’improvviso ritorna all’infanzia lontana. Giunge accanto a me ansimante e lieta e dalla bocca sfugge un sussurro: “pare lu Niagara” (ha vissuto in America per alcuni anni). Finalmente comprendo. Ora so perché sono stato attratto dalla chiesa e da lei, ieri sera. Collego i due momenti, le due preghiere, i due riti, il volto che riappare. Zia Vincenzina è il medium. Mnemosine l’altro suo nome. Incarnazione della dea greca della memoria. Mentre la osservo, come in un sogno, la dea rammenta. Celebra un rito che non è molto diverso da quello della sera prima in chiesa. Giunta per ultima, a santificare il giorno del ritorno, del ritrovamento.

Venuta per ricordare, per raccordare, come direbbe Umberto Galimberti, il futuro al passato, l’ideazione all’identità. Perché non è una semplice passeggiata collettiva quella che abbiamo compiuto oggi, per il “Festival dell’erranza e della filoxenia”. Lungo le rughe del borgo semi-abbandonato Panetti, fra gli orti aulenti, nei boschi rugiadosi, sul fiume eternamente mormorante, sotto il limpido salto d’acqua, all’orlo del gurnale. E’ un pellegrinaggio, piuttosto. Di tanti pellegrini che avevano dimenticato i loro luoghi, cancellato una cultura, rimosso il passato. Quasi fosse un’epoca buia, solo di sofferenza e povertà, solo di fatica e indigenza. E con il passato aveva disperso anche la via che porta ai luoghi, la strada che fa rivivere la memoria, il sentiero che conduce al futuro e alla speranza. E’ il materializzarsi di quel fenomeno che chiamo “inversione topografica”, tipico di tante comunità dell’interno: dalla rimozione dei luoghi alla riappropriazione di un intero paesaggio interiore.

E’ il rito di rinascita di una comunità che tenta di sottrarsi all’apocalisse culturale che l’ha colpita, come scrisse Ernesto de Martino. E’ il rosario, il mantra di una civiltà che ha scelto di non dissolversi, di non sperdersi, come un alito di nebbia nel bosco sul far della sera. E’ la commozione di Felice Mastroianni, il piccolo, grande poeta di Platania: “Non è come nelle antiche leggende un paese lontano lontano ove alligna un albero miracoloso, e in cui non è dato porre piede ai mortali. Non è l’incantata isola di Calipso e il favoloso eden del vano sogno – più o meno confessato – dell’anima. E’ il piccolo paese d’un piccolo poeta, che ne ha fatto la favola solitaria e segreta della propria vita […]. E’ il paesetto – gerani e garofani ai davanzali – sulla collina di fronte al mare lontano e al monte nelle cui grotte c’erano le fate. E’ il mio paese ove nacqui, come infiniti altri nel mondo, ma con l’incantesimo degli uomini sempre vivi”.  

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