La valle con la collana di turchesi

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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  Ci sono cammini che guariscono. Una forma di taumaturgia che solo i pellegrini conoscono. Il cammino di oggi è così. Inizio con tutti i sintomi delle mie malattie. E con ogni malumore possibile. Dopo il primo quarto d’ora d’aria, silenzio, profumi, orizzonti, cielo, foreste, montagne, ritorno una creatura sana e felice. Non ho più bisogno di alcuna ricerca di senso. Intuisco che la filosofia è un’inutile invenzione di sedentari depressi. E che i veri grandi filosofi non pensavano affatto che stessero facendo filosofia quando discorrevano all’aria aperta, passeggiando e meditando … sulle rive dell’Ilisso, come Socrate, o nei dintorni di Parigi, come Rousseau. E poi, i cammini sono meglio di qualunque libro di storia, geografia, antropologia. Qui, fra le severe montagne delle Serre orientali, nella valle dell’Allaro, ogni passo diviene conoscenza. E ogni conoscenza si fa amore: per un viandante, camminare è puro erotismo, come scrisse Hermann Hesse. Spiego ai miei compagni che l’idea del pellegrinaggio di oggi s’è formata ieri sera tardi, dopo ore di indecisione. Perché, in queste cose non esercito alcun dominio sulla mia psiche, non posso comandare il mio istinto. Resta un mistero, anche per me, come nascono i progetti delle mie erranze! Da Ficara di Caulonia procediamo a piedi lungo la sterrata che taglia la pendice in destra idrografica dell’Allaro. Voglio raggiungere Ragonà, il borgo che fronteggia Nardodipace vecchio, al centro delle gole.

Come un contadino e pastore di cento anni fa, che ritorna al villaggio dopo essere sceso al Monastero di Sant’Ilarione per la festa. Voglio percorrere gli stessi sentieri, vedere le stesse pietre, gli stessi cieli, gli stessi quadri incorniciati tra le fronde degli alberi. E sentirmi invadere piano dalla dolcezza di riconoscere la mia casa, la mia patria. Sant’Ilarione (291/371), era un monaco e un eremita nato in Palestina, vissuto in tanti luoghi del Mediterraneo orientale. E’ un enigma come il suo culto sia giunto quassù. Il monastero è allo sbocco delle gole, come una pietra miliare. Durante la fiera, in maggio, il popolo dei monti si riversava a valle. Per scambiare beni e prodotti. Per stringere patti e amicizie. Per lasciare che il dio Pan irrompesse attraverso il vino, la musica, le danze. Fa caldo e c'è una gran foschia. Sono fiorite la gialla ginestra spinosa e la valeriana scarlatta. La scura lecceta è picchietata del verde tenero dei castagni e degli ornielli. L'Allaro mugghia tumultuoso, come un drago. Lontano, nel centro dell'abisso, il monastero, dove vive oggi Fredric Vermorel, l'eremita. Gli alti crinali delle Serre orientali precipitano, fra pareti e valloni, verso il fondovalle. Alla frana di Salincriti, il grande seno terroso è solcato nel centro da un ruscello che pare una lucente collana di turchesi. Basterebbe questa visione per riscattare l’intera giornata. Beniamino, il pastore di Salincriti, ci racconta i sentieri perduti che dovremo percorrere, lasciando la sterrata, per raggiungere Ragonà. Le vecchie case abbandonate traboccano di segni di vite sospese. Enormi roveri secolari producono ghiande per i porci. Capre anarchiche scorrazzano sugli orli di paurosi strapiombi. Ci tuffiamo nel bosco. Ad Agrelli, nella casa di pietre lontana dal mondo un uomo solitario si prepara a desinare. Vorrebbe che mangiassimo con lui. Ci indica il prosieguo dell’antica via. Varchiamo la porta del tempo. Entriamo in una fiaba. Castagneti, uliveti, orti, frutteti, vigneti, vasche, sorgive, acquari, minuscole case, muretti di pietre che sorreggono terrazzi. Nuvole scure avvolgono le montagne. L’aria riecheggia di tuoni. La luce cede il passo all'ombra. E il caldo al freddo. Ci affrettiamo su stretti camminamenti sospesi fra le rasule e le armacere.

Appena compare Ragonà, artigliato al costone che da Monte Gremi si tuffa verso le Gole dell'Allaro, giunge, inesorabile, il temporale. Entriamo fra i vichi del paese semi abbandonato per le alluvioni e l'emigrazione, dove è ambientato “Sole nero a Malifà”, uno struggente romanzo di Sharo Gambino. Troviamo rifugio sotto una tettoia nella piazzetta. Una signora vestita di nero esce curiosa ad accogliere gli strani forestieri usciti dal nulla. “Undi viniti?”, “Undi iati?”, “La machina nun l’aviti?”. Ci riempie di attenzioni e di cibo. Una ragazza bellissima passa fugace, come un’apparizione. Ci rassegnamo ad un lungo e complesso rientro sotto la pioggia battente per i sentieri dell'andata. Ma un pulmino, che fa da navetta fra gli abitati evacuati di Ragonà e Nardodipace e i paesi nuovi ricostruiti a Cassari e Ciano, giunge al borgo proprio ora. Ci carica e ci porta in alto, dove la sterrata che abbiamo lasciato a Salincriti si innesta con la strada asfaltata: sarà meno scomodo, con la pioggia, tornare lungo la stradina. Ringraziamo, scendiamo e riprendiamo il cammino. Non passano dieci minuti che il temporale si quieta. “Scampau!” avrà esclamato la signora di Ragonà pensando a noi. Torna il caldo. E’ volubile la valle dell’Allaro. Come una donna bella e capricciosa. A Salincriti, un contadino sale da Caulonia. Dormirà in questa solitudini stanotte, in una piccola casa di pietre. Deve accudire l’orto. Resterà qui per giorni. Senza luce, senza televisione, senza telefono. Lontano dal caos impazzito del mondo civilizzato. E’ un epigone moderno degli antichi eremiti che popolavano la valle. Lo invidio: se è vero che il cammino guarisce, certe solitudini possono perfino salvare.

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