Piero Bevilacqua: Breve storia dell’Italia Meridionale dall’Ottocento ad oggi

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francesco_bevilacquadi Francesco Bevilacqua 

Ci occupiamo oggi del più crucciale tra i periodi storici della Calabria. Lo facciamo recensendo “Breve storia dell’Italia Meridionale, dall’Ottocento ad oggi” scritto da Piero Bevilacqua ed edito da Donzelli nel 1993. Il libro – lo dico subito – ha tre pregi fondamentali. Il primo è quello di essere breve e di agevole lettura; il secondo è quello di essere rigoroso sul piano scientifico (l'autore è uno storico di professione, docente universitario e cita una mole di dati a suffragio delle propri tesi); il terzo è quello di essere stato scritto prima che si accendesse la miccia della reazione pseudo-meridionalistica, con la nascita dei partiti del Sud, e che si inaugurasse una stagione di rivendicazioni sostanzialmente velleitarie, uguali e contrarie a quelle operate dalla Lega al Nord.

Quello che va dall'Unità ai nostri giorni è il periodo storico che ha determinato in modo esiziale la situazione odierna della Calabria, con il suo bagaglio di problemi irrisolti e sempre più gravi. È in questo periodo, infatti, che si acuiscono in modo irreversibile problemi secolari e che si connotano definitivamente tutti i fenomeni negativi che ne caratterizzano la storia recente.

Seguiamo, allora, sinteticamente, il racconto del libro e ripercorriamo le tappe salienti di questo periodo. Si parte dal fatto più rilevante del breve tentativo di conquista napoleonica del Sud, l’eversione della feudalità, ossia l'abolizione di quel sistema di governo - e di appropriazione - del territorio, che nel Sud era in auge da secoli: paesi, terre ed uomini in balia assoluta di poche famiglie nobiliari. Ma i baroni non vennero espropriati di tutti i loro possedimenti; soltanto non ebbero più il potere assoluto su uomini, terre e cose che ricadevano nel feudo. Tra il 1806 ed il 1860, nel Sud, vennero, così, divisi e/o quotizzati 705.000 ettari di terra, contro però i sette-otto milioni di ettari di superficie agraria utile. In realtà, accadde che i baroni furono solo indeboliti, che i paesi non poterono sobbarcarsi gli oneri di costose liti giudiziarie, che la gran parte dei terreni divisi, a causa della mancanza di capitali nella disponibilità dei contadini, venne abbandonata o rivenduta a ricchi proprietari.

Sotto il profilo demografico, la popolazione del Sud a partire da metà Settecento crebbe costantemente, mettendo fine ai cicli di crescita e decrescita precedenti: Napoli, alla fine dell'Ottocento contava ben 438.000 abitanti ed era la terza metropoli europea. Enormi quantità di territorio prima occupati dalla natura vennero, così, messe a coltura. A farne le spese soprattutto i boschi, che vennero massivamente distrutti col fuoco (debbio o, localmente, cesina) per far posto a pascoli, grano, segale e granturco. La Calabria, dotata di ripide pendici vallive, vide acuirsi il problema dell’erosione del suolo, dell'innalzamento degli alvei dei fiumi, dell'impaludamento di pianure e litorali. Proprio in Calabria la più gran parte della popolazione risiedeva nei paesi in altura, lontani dalle zone malariche costiere. Dunque, ricorda Bevilacqua, si creò un rovinoso circolo vizioso: la popolazione, sempre più affamata, distruggeva i boschi sulle pendici delle valli, ed i fiumi ricambiavano, esondando ed implementando paludi e malaria.

La coltura maggiormente attiva al Sud prima dell’Unità era quella del grano, praticata da piccoli e grandi proprietari, anche perché non abbisognava di acqua e di miglioramenti agrari. La Calabria diede il suo fondamentale contributo soprattutto nel Marchesato di Crotone, ove erano concentrate le più estese proprietà latifondistiche. Altre colture diffuse, perché favorite dal clima, erano quelle del gelso, della canna da zucchero, dell'ulivo, della vite, del mandorlo, del nocciolo, degli agrumi, che, man mano conquistarono spazio rispetto al grano. Mercanti del nord Europa acquistavano seta grezza, olio, vino, mandorle. Quanto alle manifatture, il Sud era costellato di centri di lavorazione del cotone, del vetro e delle ceramiche, di concerie, fornaci, piccole industrie di carta, tintorie. Vi erano anche concerie di pelli e manifatture di guanti rinomate. Si produceva la pasta. Diffusa era la manifattura tessile: vi era vicino Caserta un importante ed innovativo stabilimento che occupò sino a 1300 operai, ma si pensi che anche in Calabria, a Catanzaro, ad esempio, nel 1784 erano occupati nell'industria della seta circa 6000 operai pari a 2/3 della popolazione cittadina. Vi era poi l'industria metalmeccanica, soprattutto a Napoli, dove si producevano attrezzi agricoli, pressoi e torchi idraulici, ruote dentate, macchinari di vario genere e, per un periodo, anche caldaie a vapore. Nel 1818 partì da Napoli diretto a Marsiglia il primo battello a vapore che attraversò il Mediterraneo. E sempre da Napoli, nel 1839 partì la prima linea ferroviaria d'Italia, la Napoli-Portici.

Al momento dell'Unità, dunque, secondo l'autore, il Sud non era poi in grave svantaggio rispetto al Nord. Sulla questione delle protezioni doganali poste in essere dai Borbone, Bevilacqua fa notare, come questo tipo di intervento statale non era affatto estraneo ad altri paesi europei, primi fra tutti l'Inghilterra. I limiti dell'industria meridionale erano, invece, la ristrettezza del ceto imprenditoriale, la poca domanda interna e la dislocazione geografica del regno, lontano ed isolato rispetto agli stati europei in corso di industrializzazione.

Cosa accadde, dunque, dopo l'Unità, per ridurre il Sud a "problema"? Innanzitutto, l'abolizione pressoché improvvisa delle tariffe protezionistiche espose le industrie del Sud alla spietata concorrenza esterna. L'amministrazione statale fu, poi, per diverso tempo estranea alla realtà ed ai problemi dell'ex Regno di Napoli. Inoltre, l'unificazione italiana fu sostanzialmente un fatto militare ed istituzionale, con scarsa partecipazione del popolo meridionale. La pressione fiscale dei piemontesi fu di gran lunga più forte di quella borbonica. Rimase irrisolto l'antico bisogno di terra delle plebi rurali. Il servizio militare obbligatorio privava di braccia le famiglie contadine del Sud per ben cinque anni. Fu così che nacque e si inasprì quella che Bevilacqua definisce "la più vasta, lunga e sanguinosa forma di guerra civile della nostra storia: il brigantaggio".

In conseguenza alla disfatta economica, sociale e civile del Sud nacque la cosiddetta "questione meridionale". Importanti meridionalisti furono Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino, Pasquale Turiello, Giustino Fortunato, Ettore Ciccotti, Francesco Saverio Nitti, Napoleone Colaianni, Gaetano Salvemini, Umberto Zanotti Bianco, Giuseppe Isnardi etc.. Pur con diversità tra le varie posizioni, le analisi e le inchieste sul campo di questi studiosi dimostrarono come, al Sud, tra proprietari e braccianti esistesse un rapporto ancora di puro arbitrio. Tutto si fondava sulla legge del più forte e sulla assenza di uno Stato garante dei diritti e della giustizia. Ma vi era, ovviamente, molto altro ancora, dalle condizioni ambientali alle questioni antropologiche, dalla sociologia all'economia.

In questo contesto si inserì la nascita della criminalità organizzata, spesso come forma illegale di procacciamento di risorse, come metodo per regolare i rapporti tra gruppi e famiglie, di controllo del territorio, di vigilanza di beni privati, di mediazioni di conflitti, di controllo del mercato del lavoro e delle istanze sociali etc.. Sul piano economico, va detto che dopo un primo momento di ripresa dell'agricoltura meridionale, soprattutto per quel che riguarda la vite e gli agrumi, e di maggiore articolazione della borghesia agraria, si registrò un prosciugamento di capitali dovuto alla vendita delle cospicue proprietà fondiarie della Chiesa. All'inizio degli anni 80 dell'Ottocento, si abbattè sull'agricoltura italiana un'epocale crisi agraria, dovuta soprattutto all'arrivo sul mercato di grani russi ed americani a prezzi molto più competitivi. Ebbe inizio, così, la prima, grande ondata migratoria transoceanica: tra il 1876 ed il 1914 ben 5.400.000 persone lasciarono il Mezzogiorno (di cui 879.000 la sola Calabria). Il fenomeno fu ambivalente: da un lato consentì a molti di liberarsi da gioghi secolari, accedere a nuove occupazioni, mandare ingenti capitali in patria, uscire dall'indigenza; dall'altro produsse un'indicibile sofferenza umana.

Intanto, tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale, al Nord, nel triangolo Torino-Genova-Milano si formò una prima base industriale, dando vita a quel processo di agglomerazione, per il quale nuove industrie nascono più facilmente laddove ve ne sono già. Fu la definitiva divaricazione tra un Nord che si modernizzava e cresceva ed un Sud che si spopolava e regrediva. Nasceva anche una dicotomia politica: mentre i politici del Nord ottenevano sgravi, finanziamenti, investimenti per l'industria, quelli del Sud inauguravano la lunga stagione delle rivendicazioni sociali (strade, ponti, opere pubbliche etc.), che segnarono l'inizio dell'assistenzialismo.

Verso la fine dell'Ottocento si verificarono, soprattutto in Sicilia, rivolte popolari, con occupazione di terre, represse nel sangue dal governo. Ma nel 1922 giunse il fascismo a spegnere ogni rivendicazione. Sotto il fascismo, il Sud fu destinato a due particolari interventi pubblici: la produzione di energia idroelettrica (in quel periodo nacquero i laghi silani) e la bonifica integrale (in Calabria vennero bonificate le piane di Sibari, Sant'Eufemia e Rosarno). Fu così sconfitta anche la malaria, dovuta alla presenza della zanzara anofele nelle aree paludose costiere, e cominciò a prodursi il fenomeno della cosiddetta oceanizzazione, ossia il graduale trasferimento delle popolazioni vissute per secoli nei paesi sui monti verso la costa.

Sila.-Monte-Gariglione-anni-30-del-900.-Ferrovia-a-scartamento-ridotto-per-lesbosco-del-legnameSila - Monte Gariglione anni 30 del 900. Ferrovia a scartamento ridotto per l'esbosco del legname

La seconda guerra mondiale determinò, come è facile intuire, distruzione e depressione dappertutto e ancor più nel già sfilacciato e debole tessuto sociale del Sud. Nell'immediato dopoguerra si produsse, anche il Calabria, una stagione di rivendicazioni contadine senza precedenti che, dopo le occupazioni di terre e le repressioni - che culminarono, in Calabria, con l'eccidio di Melissa nel 1949 - portarono alla cosiddetta Legge Sila del 1950 che avviò un largo processo di riforma fondiaria in Calabria, poi esteso in altre aree del Sud, con assegnazione ai contadini, tra il 1950 ed il 1960, di oltre 417.000 ettari di terra, mentre altri 450.000 passarono di mano per effetto della legge del 1948 sulla piccola proprietà contadina. Ma, per la endemica carenza di capitali da investire, per la esiguità dei singoli appezzamenti di terreno, per la mancanza di una qualunque forma di cooperazione tra piccoli proprietari, la riforma ebbe scarsi esiti.

Vennero gli anni del "boom economico". A trarne beneficio furono soprattutto le industrie metalmeccaniche, elettrotecniche e tessili del Nord-Ovest. Nel 1950, per tentare di correggere l'evidente dualismo tra lo sviluppo del Nord e quello del Sud, venne istituita la famigerata Cassa per il Mezzogiorno, che nei decenni successivi investì ingenti risorse in crediti agevolati, opere pubbliche ed infrastrutture. Mentre, solo a partire dal 1957 si tentò l'industrializzazione del Sud con interventi per poli industriali in Campania, Basilicata, Sicilia. La Calabria registrò, invece, una certa modernizzazione delle colture agricole soprattutto nelle tre piane e nel Marchesato di Crotone, con espansione delle colture irrigue. A metà degli anni Ottanta il Sud produceva il 57% di tutta la produzione ortofrutticola italiana. Ma, per converso, tra il 1951 ed il 1978 l'agricoltura del Sud, per effetto delle nuove tecniche di coltivazione, perse due milioni di braccia. Si produsse così un secondo, intensissimo flusso migratorio verso il Nord Italia e le altre nazioni europee: tra il 1951 ed il 1971 ben 4.500.000 lavoratori.

Si produsse, contemporaneamente un espandersi dei fenomeni dell'oceanizzazione e dell'inurbamento, quest'ultimo sviluppatosi in modo incredibilmente caotico. Mentre, per converso, lo spopolamento dei paesi mette ormai a serio rischio la loro stessa sopravvivenza. Si registrò anche un decremento dell'agricoltura a favore del terziario.

Da metà degli anni settanta, l'aumento del prezzo del petrolio dovuto alla crisi arabo-israeliana aprì una congiuntura internazionale decisamente sfavorevole, durata sino al 1984, che si riverberò negativamente sull'esigua industria del sud. Mentre al Nord la crisi si affrontò con ristrutturazioni, riconversioni ed investimenti di capitali, al Sud si registrò, con qualche eccezione, una sorta di stagnazione che riportò il divario tra le due parti del Paese ai livelli degli anni 50. In realtà, a metà degli anni 80 l'intervento straordinario nel Sud si era dimezzato rispetto a dieci anni prima. Ed anche la qualità dell'intervento si spostò da settori produttivi a forme di puro assistenzialismo.

E veniamo alla situazione attuale (all'epoca dell'uscita del libro, ossia il 1993). Secondo l'autore i problemi più acuti del Sud (e quindi anche della Calabria) sono, oltre alla mancanza di lavoro, il degrado sempre crescente della vita civile, l'inefficienza della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici, la crisi della politica e la crescita esponenziale della criminalità organizzata. Secondo Bevilacqua, inoltre, l'intervento straordinario ha finito non per aggiungersi a quello ordinario ma per sostituirsi ad esso, sicché, a conti fatti, lo Stato ha speso per il Sud meno di quel che ha speso per il Nord. Mentre il regionalismo, che avrebbe dovuto portare ad una maggior responsabilizzazione dei ceti dirigenti, ha invece determinato una crescita esponenziale dell'assistenzialismo, del clientelismo, ed una carenza di pianificazione razionale in tutti i campi. Quanto alla questione della mancanza di senso dello Stato che starebbe nell'animo dei meridionali ed a quel "familismo amorale" che, secondo il sociologo americano Edward C. Banfield sarebbe alla base dello scarso senso civico e di cooperazione delle comunità del Sud, secondo Bevilacqua si tratta di stereotipi che cercano di afferrare fenomeni difficili da decifrare e soprattutto non tengono conto della storia sociale di queste regioni.

Infine, come giudicare la longevità ed anzi la forte vitalità del fenomeno della criminalità organizzata al Sud? Bevilacqua punta il dito contro l'insipienza dei governi nazionali che hanno lasciato per decenni la macchina della giustizia in condizioni disastrose, dimostrando così una colpevole, se non dolosa, miopia verso quel che stava accadendo. Ed è proprio la qualità del vivere civile, compromessa da fenomeni come la mafia, il malaffare, la cattiva amministrazione della cosa pubblica, più che il divario reddituale, il vero nodo da affrontare per far ripartire il Sud.

Piero Bevilacqua

Breve storia dell’Italia Meridionale dall’Ottocento ad oggi

Donzelli

Roma 1993

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