Pietra dell’Angioletto. Nel regno del sublime naturale

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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 “Cosa avrò fatto di buono, nella mia vita, per meritare tutto questo?” Udii questa frase dalle labbra incredule di un tedesco a Torre di Albidona – uno dei primi, veri agriturismi calabresi – negli anni ottanta. C’era con me anche Franco Tassi. Cosa era accaduto a quel signore? Giunto in Calabria attraverso un’agenzia turistica per fare un po’ di mare, era stato indirizzato da noi a vedere i pini loricati su Serra di Crispo! Tutto qui. La frase riecheggia nella mia mente, stamattina, mentre contemplo, estasiato, i dirupi della Pietra dell’Angioletto che precipitano nella Valle del Rosa, nel Gruppo de La Mula, Monti dell’Orsomarso, San Sosti. Ma, quando dico “tutto questo”, come il tedesco, comprendo anche la fatica per giungere sin lì. Perché nella vita tutto è grazia, anche le sofferenze, se solo riesci a convincerti che una parte di dolore dovrà pur toccarti, prima o poi. Sono tutto acciaccato oggi. Le conseguenze di un incidente domenica scorsa in una gola fluviale. Raffreddore incipiente. Senso di spossatezza. I soliti pensieri di un’indole malinconica. Tuttavia non voglio rinunciare al mio cammino della festa. O alla festa del cammino, se volete. Avevo un conto aperto con un tratto delle gole della fiumara Assi sulle Serre. Ma ho cambiato direzione. Assecondo il desiderio di Francesco e salgo verso il nord della Calabria. Con tre o quattro opzioni rastrellate tra i file in sospeso nella mia testa all’ultimo momento. Sull’autostrada decidiamo di raggiungere Casiglia per salire verso La Mula, Serra Scodellaro o, forse, Pietra dell’Angioletto. Dalla quale manco da anni. Dacché, la prima volta, vi andai con Vincenzo Maratea, il genius loci di queste montagne. Casiglia è un’antica dimora di pastori, raggiungibile, solo in fuoristrada, da San Donato di Ninea (ma la strada, scopriamo, è crollata), da Policastrello (ma una parte del percorso è impraticabile) o da San Sosti. C’è l’opzione di salire direttamente da San Sosti a piedi. L’ho fatto. Anche compiendo un anello pazzesco, con rientro dal Varco del Palombaro e dalle Gole del Rosa. Ma oggi non ne avrei la forza. Il meteo è incerto. Attraversiamo il bosco incantato che porta verso il Vallone Zoppatura, dove, in primavera, esplode la fioritura sgargiante delle peonie. Oggi sono i muschi a farla da padroni. E gli scarabei, che, a centinaia, fanno incetta del prezioso letame delle vacche. Grandi roveri, cerri ed aceri sono rimasti qua e là nel bosco. Che oggi ci accoglie stupito: è difficile che quassù venga qualcuno. Deviamo dal percorso normale per giungere il crinale che vorremmo seguire. Riconosco la valletta laterale e ne ho conferma quando scorgo gli inghiottitoi. Poi ecco il primo, incredibile affaccio. La sagoma scura di Montea, la più bella montagna della Calabria, si staglia sullo sfondo, sovrastata da nubi plumbee. Giù, le gole del Rosa. Al Santuario della Madonna del Pettoruto, a mezza costa sulla valle, è festa grande. Da lì la vedo: Pietra dell’Angioletto. Una rupe che interrompe la linea di cresta che dal Rosa sale verso Serra Scodellaro. In quel momento so di non avere altra scelta.

E’ lì che dobbiamo andare! Ma non ricordo più esattamente il percorso. Anche perché, negli anni sulla pendice che ci separa da lei è cresciuta una piccola giungla di querce. Risaliamo per un tratto il crinale e poi, ben sapendo di andare a ramengo, mi fido di una pista di vacche. Per un’ora e mezza compiamo una vera erranza. Fra ripide pendici, canaloni precipiti, rupi improvvise che sbarrano la strada. Lasciamo segni per il ritorno. Alla fine sbuchiamo proprio nella sella sotto la rupe.Quel pinnacolo porta un nome curioso: Pietra di Mastru Cacatu, come mi dirà la sera al telefono, Vincenzo. E’ l’escrescenza rocciosa più a valle del grandioso complesso di rupi, pareti e canaloni che rendono questo luogo unico, imponente, sublime. Sublime nel senso romantico del termine. Il sublime naturale di Kant. Che è bellezza che seduce e nello stesso tempo soggioga, incombe, nella sua straordinaria potenza. Sulla pietra crescono pensili e sghembi i pini loricati. Restiamo ad ammirare e ad emozionarci per un pezzo. Stiamo vivendo uno spettacolo unico, che non ha eguali. E’ una visione mistica. Ma l’istinto mi dice di tornare. Abbiamo osato abbastanza per oggi. Ripercorriamo la via dell’andata all’inverso ritirando tutti i segnali: qui non possiamo mandarci nessuno; troppo rischioso. Al rientro siamo ancora increduli. Vogliamo festeggiare con un gelato artigianale. Finiamo in un bar di un quartiere nuovo, molto elegante, di Rende. Il bar sta per aprire. Ci sediamo all’esterno. Nel giro di dieci minuti dieci si crea una file di una cinquantina di persone. Mi sembra di assistere allo spettacolo delle code fuori dei negozi di informatica quando esce un nuovo Iphone. Hanno i visi seri, come di chi sta compiendo un rito importante. L’uomo che, con la famiglia, ha conquistato la testa del corteo funebre, ha un fare ieratico, come se attendesse l’ostia dell’eucarestia. Ecco, il bar apre i battenti. Le persone defluiscono all’interno. Il primo a uscire è lui, il sacerdote, con il suo cono gelato. Si concentra, sempre serio, a leccarlo ben bene, con una perizia ed una abilità straordinarie. Non esco mai per negozi, non vado quasi mai in ristoranti e bar, non frequento i luoghi affollati nelle città. Mi raccontano gli amici che quella zona di Rende è come un tempio. Alla sera vi affluiscono migliaia di persone da tutto il circondario. E' il tempio dei comportamenti coatti di chi vive, e resta sempre, in città, alienato da ogni diversa realtà. Il tempio di chi sa che il proprio statuto di umano, l’essere riconosciuto dagli altri, dipende esattamente da quanto sei bravo a imitare quel branco di bipedi che risponde agli ordini inespressi dei persuasori occulti.

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