Vitigni “perduti” e ritrovati: la sfida della nostra enologia

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DI GIANFRANCO MANFREDI

I nomi? Li faccio subito: magliocco dolce, arvino, guarnaccia, marcigliana, nera di Scilla. E poi, Corinto nero, negrello campoto, nerello di Savelli. Gruppi di “famiglie”, come il vasto parentato dei Nocera e dei “cugini” del sangiovese. Ma anche soggetti a sé stanti come il castiglione o il tundulillo bianco.

Sembra infinito il patrimonio dei vitigni antichi che si sta scoprendo in Calabria. E’ un giacimento straordinariamente ricco. Come nessun’altro posto al mondo, a quanto pare. Giro per la magnifica azienda Rosaneti dei Librandi, nel Cirotano, e in un ampio declivio che guarda verso il borgo di Casabona trovo un vigneto mai visto: è un’incredibile, enorme spirale di filari. Le viti, impiantate e allevate a regola d’arte, si susseguono ordinatissime. Disposte intorno a un polo, paiono avvolgersi come in un antico mosaico o in uno di quei simboli alieni visti nei film di fantascienza. Insieme ad altri vigneti votati alla sperimentazione, si tratta di 12.500 ceppi di vitigni autoctoni coltivati dai Librandi: il più grande campo sperimentale di viticoltura a cielo aperto. Il più grande d’Europa.

Sono ancora una volta all’avanguardia i due dinamici fratelli di Cirò Marina. Quasi trent’anni fa Nicodemo e Antonio Librandi suonarono la sveglia all’enologia regionale creando vini inediti come il Gravello e il Critone, due grandi successi coi vitigni internazionali sperimentati felicemente in Calabria dal loro enologo del tempo, Severino Garofano. Ed adesso tocca ancora a loro il ruolo di pionieri, di apripista. Sono oltre 180 i vitigni calabresi “ritrovati”, selezionati e messi a dimora nei campi sperimentali dell’azienda di Cirò Marina. “Scelti i semi, risultati dall’autofecondazione di alcuni antichi vitigni ‘indigeni’ scovati negli angoli più sperduti della regione  -spiega Nicodemo Librandi-, dopo la germinazione le viti ottenute sono state messe a dimora e, attraverso particolari tecniche, hanno prodotto i primi grappoli al secondo anno d’impianto”.

Su questi vitigni antichi/nuovissimi è stato avviato un progetto molto articolato, che comprende lo studio del DNA, un’accurata analisi ampelografica, uno studio virologico e infine uno studio enologico. I risultati s’annunciano sensazionali e fanno gongolare il professor Mario Fregoni, Ordinario di Viticoltura all’Università Cattolica Sacro Cuore di Piacenza, uno dei massimi studiosi in Europa. Sul totale di circa 180 varietà, 77 sono assolutamente inedite e il 50% ha prodotto dei grappoli che presentano caratteristiche molto interessanti da un punto di vista morfologico e competitivo.

Si profila, così, una svolta storica. Perché dopo il successo planetario dei cosiddetti vitigni internazionali (merlot, cabernet, chardonnay, ecc) è in atto un’inversione di tendenza. Il professor Fregoni mi ha snocciolato in proposito cifre eloquenti: ”Nel mondo ci sono 320 mila ettari di vigneti coltivati a merlot – dice - , 250 mila a cabernet sauvignon, 100 mila a cabernet franc. Si punta a produzioni sempre più ’facili’: nei vigneti in Australia si è arrivati a ridurre a 50 ore all’anno la lavorazione a ettaro”. Col ritorno in auge degli autoctoni si segna, invece, la voglia anche dei consumatori di reagire all’omologazione del gusto, di contrastare un appiattimento che rischia di cancellare le differenze, quella biodiversità che anche nella viticoltura è la chance decisiva per terre come la Calabria.

Le tradizioni, e la storia, lo confermano. Se la studiosa Marilena De Bonis ripercorre la vicenda plurimillenaria della vite in Calabria, mettendone in risalto “misconosciute dimensioni di risorsa non solo economica, ma anche culturale”, il professor Vito Teti, docente di etnologia e uno dei nomi più accreditati dell’antropologia alimentare, traccia un affascinante affresco in cui il vino è “il filo conduttore della storia calabrese” ma, soprattutto, avverte, “come elemento assente e desiderato”. Perché, spiega, “se insieme al grano e all’olio caratterizza il modello e i regimi alimentari del Mediterraneo, non sempre è stato un bene disponibile per tutti”.

Saltano fuori anche sorprese impensabili dalla ricerca avviata a Cirò dai Librandi. Chi avrebbe mai immaginato, ad esempio, che il sangiovese – proprio lui, il vitigno che è alla base del Chianti -  fosse “figlio” di vitigni nostrani? Invece è proprio così: l’ha accertato, con la prove del DNA inoppugnabile, la studiosa  Stella Grando, responsabile dell’Unità Genetica Molecolare dell’Istituto Agrario di San Michele all'Adige. “I ‘genitori’ del sangiovese – spiega la Grando – sono il ciliegiolo e il calabrese montenuovo, un vitigno che ha le radici in Calabria ed è poi migrato in Campania”. Un’altra studiosa, Anna Schneider, una ricercatrice CNR dell’Istituto Virologia Vegetale che collabora anche col professor Rocco Zappia dell’Università di Reggio, ha potuto accertare che il nostro famoso vitigno greco di Bianco (o di Gerace) è “’gemello’ della malvasia di Lipari, ed è presente anche in piccole estensioni in Spagna, alle Canarie e in Dalmazia.

Il nocciolo, anzi il vinacciolo, dello studio avviato (e finanziato) dai Librandi, è, insomma, una “missione” che ha dell’incredibile: un “viaggio” – rigorosamente scientifico –  nel tempo, a ritroso per millenni, per risalire all’origine dei vitigni autoctoni calabresi. Per riportarli, grazie all’utilizzazione delle analisi del dna, al loro aspetto passato, alle loro caratteristiche perdute. E dal passato remoto dell’antica Enotria nasceranno, così, vini inediti e modernissimi.

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