Color Fest IX, "una questione di qualità". Già annunciata la decima edizione nel 2022

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di Francesco Sacco.

Maida – Take me somewhere nice. Un concerto. O, meglio ancora, un festival. Un festival capace di cancellare, almeno per un attimo, oltre un anno di paure e incertezze e recuperare quel senso di normalità ormai smarrito. In verità, il Color Fest ci aveva già provato - con buoni risultati - dopo la prima ondata pandemica, in un’edizione 2020 per cause di forza maggiore meno altisonante ma comunque impreziosita da nomi quali Colapesce e Di Martino (ancora lontani dal “leggerissimo” exploit sanremese), Giovanni Truppi, Flavio Giurato e tanti altri. Un esperimento riuscito che ha portato definitivamente i suoi frutti nell’ultima edizione, non solo pressoché impeccabile sotto il profilo logistico (aspetto affatto secondario di questi tempi) ma soprattutto per quel che concerne una line-up perfettamente equilibrata tra consueto itpop, cantautorato indie, avanguardia e persino il ritorno di uno special guest internazionale: Stuart Braithwaite, leader dei Mogwai.

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Ed è toccato proprio al frontman degli alfieri scozzesi del post-rock, qui in chiave acustica, il compito di aprire le danze nella notte stellata di San Lorenzo, un po’ come accadde nella sua ultima apparizione in Calabria, al Suoni Pindarici di Jacurso nel 2015, vero punto zero di questa sua carriera parallela. Una preview prestigiosa in cui Stuart ha recuperato diversi must non strumentali della band (“Tuner”, “Teenage Exorcists”, “Cody” e l’immancabile “Take Me Somewhere Nice”), ma anche brani recenti come “Party In The Dark” (da “Every Country’s Sun”), “We’re Not Done” (dalla soundtrack dello sci-fi “Kin”) e “Ritchie Sacramento” (secondo estratto dal prossimo album, “As The Love Continues”). Spazio, poi, a una serie di cover di un certo spessore che, oltre a confermare il background post punk di Brathwaite (“Insight” dei Joy Division), hanno rivelato anche un'insospettabile passione per il blues: “You’ll Need Somebody On Your Bond” di Blind Willie Johnson, posta in chiusura, e “What Are They Doing In Heaven Today?” di Washington Phillips, gospel degli anni ’20 riletto per la colonna sonora del caso televisivo “Les Revenants”. Difficile, forse, riassaporare le atmosfere suggestive, tra inclinazioni shoegaze e divagazioni psichedeliche, del post-rock chitarristico dei Mogwai in questa veste, ma il set intimo di Braithwaite, anticipato dalle astratte contaminazioni electro-folk del progetto Aquerell (Luca Vittorino feat. Carlo Scali), rappresenta un compromesso certamente di qualità per introdurre con classe le tappe ufficiali del festival.

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Archiviata la parentesi internazionale, la due giorni del Color è tornata a concentrarsi sul meglio della scena indipendente tricolore, in particolare l’headliner della prima giornata: Iosonouncane, reduce da uno dei lavori più radicali dell’anno. Ne è passato di tempo dal celebrato “Die”, presentato proprio a certe latitudini nell’estate 2015, quanto basta per rivoluzionare completamente l’idea di musica di Jacopo Incani, sempre più distante dalla forma canzone e da ogni legame col cantautorato, alle prese con un’opera titanica, monumentale, con cui destrutturare una forma canzone ora libera di fluire in trance ipnotiche free-form percosse da sciabolate di synth e tribalismi elettronici. Una sorta di recherche antropologica, liquida, mutante, mirata a decodificare il concetto stesso di linguaggio, non solo musicale, come poteva esserlo - con le dovute proporzioni - quella dei Dead Can Dance, del Peter Gabriel terzomondista di “Passion” o del pop obliquo di Robert Wyatt post Canterbury. L’esecuzione pressoché integrale di “Ira” (un gran bel banco di prova per tutti i presenti) è stata certamente il momento più alto della giornata (e probabilmente il più ostico di tutta la storia del festival), qualcosa in grado di segnare uno spartiacque tra il prima e il dopo, soprattutto se rapportato al violento cortocircuito generato dalla staffetta con l’itpop quantomai catchy di Cimini, forse più impegnato rispetto al passato ma sempre troppo in linea con la nuova onda di quel cantautorato italiano tanto caro alle nuove generazioni (e per questo motivo, particolarmente apprezzato al Day I).

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Degni di nota, infine, anche il pop colto, dalle insospettabili venature psych e prog, dei Post Nebbia e il parziale debutto di “Zooloft”, nuovo album dei McKenzie uscito proprio il 12 agosto, in cui il trio post-hardcore lametino è riuscito ad ampliare quella tensione emotiva che animava il precedente “Falena” dando vita a soluzioni ancor più dilatate, dall'incedere funereo, quasi doom, frutto anche di un songwriting più maturo e consapevole. Il trademark McKenzie (qui l'intervista del 2018) resta, è evidente, ma continua a evolversi sotto coltri di nuvole cariche di pioggia nera, per dirla alla Bob Mould. Intuizioni un po’ fuori dagli schemi ancora protagoniste nella seconda giornata con l’headliner Venerus, autore di uno dei dischi più interessanti del 2021: “Magica Musica”, caleidoscopio di influenze musicali dal piglio onirico e surreale che lo ha consacrato next big thing della musica italiana. Anzitutto in sede live, grazie a un set in cui dar libero sfogo al forte ascendente psichedelico del songwriter milanese, (soltanto in apparenza) un outsider già abbastanza maturo per restare in orbita a lungo. Piuttosto partecipata anche l’esibizione di Ariete, ennesimo prodotto dal taglio tipicamente adolescenziale di Bomba Dischi (l’etichetta di Calcutta e Franco 126), mentre Praino e Nicolò Carnesi sono stati il trait d’union con quel passato fin qui un po’ oscurato dalla sana voglia di stupire di un festival da annoverare tra i grandi appuntamenti dell’estate. Inclusa quella del 2022. In fin dei conti, è una questione di qualità.

Ariete4_f65db.jpgFoto di Loredana Ciliberto

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