E non dimentichiamoci del “Gattopardo”

Scritto da  Pubblicato in Pino Gullà

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pino_gulla.jpgIn questi giorni c’è un gran parlare di “gufi”. Qualche settimana fa si è tornati a discutere sulle smacchiature del “Giaguaro”. In passato teneva banco “il Caimano”. Forse alcuni si sono dimenticati de “Il Gattopardo”, quello letterario di Tomasi di Lampedusa, la cui visione storica si allarga: inizia dal passato remoto, dall’impresa garibaldina nel nostro Meridione, momento aurorale dell’Unità d’Italia, si allunga al passato prossimo, al presente e pone problematiche nel futuro della nostra Nazione e dell’Europa per quanto riguarda gli usi, i costumi, i comportamenti della politica. Abbiamo sfogliato l’edizione pubblicata dal “Gruppo Editoriale L’Espresso”. Letta, riletta e sottolineata in alcune pagine. Passiamo velocemente alla frase più famosa del libro, quella di Tancredi, il nipote del principe Fabrizio di Salina, il Gattopardo, dallo stemma di famiglia, aristocratico che osserva la nobiltà siciliana in decadenza. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (pag.33). Così dice il rampollo prediletto (“questo era il figlio suo vero”) di casa Salina allo zio. E’ salito sul carro garibaldino sicuro che alla fine sarà tutto a vantaggio del suo ceto. Le parole di Tancredi non conoscono l’usura del tempo. Vengono ricordate continuamente nel momento in cui la politica vuole conservare il potere, economico e sociale, mascherandolo con il cambiamento di facciata. Ma ci sono nel romanzo altre parti significative e profetiche. Ne vogliamo riportare alcune. Quando il funzionario piemontese, Chevalley, inviato per offrire la carica di senatore del regno a Fabrizio Salina, rimane a dir poco sorpreso, in quanto il nobile rifiuta la carica con queste parole: “Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a questo ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, giovani svelti, con la mente aperta al come più che al perché...” (p. 146). E fa il nome di Calogero Sedara, sindaco di Donnafugata, residenza estiva del principe. “Insieme alla sua ricchezza cresceva anche la sua influenza politica; era divenuto il capo dei liberali a Donnafugata ed anche nei borghi vicini; quando ci sarebbero state le elezioni era sicuro di essere inviato deputato a Torino” (p.59). Il principe lo ritiene adatto al Parlamento di Torino perché “egli ha il potere; in mancanza di meriti scientifici ne ha di pratici eccezionali (…) E’ l’individuo che fa per voi” (p. 146). Chevalley non è d’accordo: “Se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedara; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli” (p. 147). Ma il principe di Salina non ne vuole sapere. E’ convinto che “i Siciliani non vorranno mai migliorare”. Di parere totalmente diverso Chevalley che riflette: “Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione, nuova, agile, moderna cambierà tutto”. Invece Fabrizio di Salina immerso nei suoi pensieri: “Tutto questo” pensava “non dovrebbe poter durare; però durerà sempre; il sempre umano beninteso, un secolo due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra” (p. 149). Si salutarono.

Scorrendo la storia d’Italia, abbiamo letto senz’altro dei Gattopardi e dei Leoni. Gli aristocratici. Abbiamo visto sciacalli e sciacalletti e iene. I nuovi ricchi. Interessati al tornaconto personale camuffato da quello per la famiglia (il familismo amorale di Banfield) o per i comitati d’affari. Affamati di denaro. La nuova classe, protagonista anche nel recente passato, specialmente quando bisognava ricostruire dopo guerre e terremoti devastanti. Quindi una visione storica allargata quella del romanzo. Non solo siciliana e del periodo risorgimentale, ma anche del presente (v. rimborsi elettorali e indagini su certi appalti). Ma la rassegnazione più preoccupante evidenziata dal principe di Salina è che “i Siciliani non vorranno mai migliorare”. Anzi dopo, “sarà diverso, ma peggiore”. In buona sostanza il principe di Salina dà ragione a coloro i quali sostengono che, dopo l’Unità d’Italia, le cose sono peggiorate. E’ successo così? Ci permettiamo di dissentire. Il progresso tecnico-scientifico c’è stato. Solo che “Gattopardi, Leoni, sciacalletti e iene” hanno frenato il miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza. E in tanti, in molti erano d’accordo o facevano finta di non accorgersene di tutto quello che succedeva. Se non si vuole cambiare, significa che si è contrari all’innovazione, al nuovo che avanza. Si rimane indietro e si peggiora. Chevalley è sicuro che “la nuova amministrazione, agile, moderna cambierà tutto”. Non è scontato. Se non si cambia nel profondo, se non si è costretti a rinunciare a privilegi e a rendite di posizione, dando opportunità a capaci e meritevoli, non si va da nessuna parte. Il cambiamento dovrà partire dall’alto (non per finta, ma per davvero) e dalla società (non per finta, ma per davvero). Solo così il futuro potrà tingersi dei colori dell’arcobaleno.

 

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