La non verità diventa una verità ad effetto

Scritto da  Pubblicato in Pino Gullà

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Abbiamo deciso di integrare online quanto già scritto sul cartaceo a proposito del populismo, parlando della post-truth, la post-verità. E’ l’ennesimo neologismo di importazione anglosassone, entrato nel politichese italiano da poco e scelto dall’Oxford Dictionaries come parola dell’anno per il 2016. La definizione del termine: “[La post-truth] si riferisce a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli ad emozioni e credenze personali nel formare l’opinione pubblica”. Secondo quanto ci dice Wikipedia, la parola fu usata per la prima volta nel 1992 in un articolo di Steve Tesich, drammaturgo serbo-americano; ma il contributo più importante al riguardo l’ha dato Ralph Keyes, docente statunitense con numerose pubblicazioni tra libri (16) articoli e saggi; nel 2004 ha pubblicato THE POST-TRUTH ERA: Dishonesty and Deception in Contemporary Life (L’era della post-verità: disonestà e inganno nella vita contemporanea). A quanto ci risulta non esiste un’edizione italiana del testo. Pertanto ci siamo affidati alle traduzioni istantanee di alcune recensioni d’Oltreoceano. Per non sbagliare riportiamo qualche virgolettato: “Penso che sia giusto dire che l’onestà è alle corde. L’inganno è diventato un luogo comune a tutti i livelli della vita contemporanea. Anche se ci sono stati sempre i bugiardi, le bugie sono state dette di solito con esitazione e un pizzico di ansia, un po’ di senso di colpa, un po’ di vergogna, ameno qualche timidezza”. Ora sono venute meno questi aspetti e possiamo liberamente dissimularle. Disonestà e inganno sono diffusi nella nostra età contemporanea come non mai, specialmente in politica. Durante le campagne elettorali la comunicazione è spesso ingannevole (come alcuni spot pubblicitari del marketing). In pratica fanno passare sui media e sui social una menzogna di cui gli autori sono consapevoli con lo scopo di trarre in  inganno l’opinione pubblica che, condizionata emotivamente, la considera veritiera.

 Annamaria Testa, docente alla Bocconi ed esperta di comunicazione, in un suo articolo parla dei fact-checker (i verificatori dei fatti) del Washington Post secondo cui nell’ultima campagna elettorale Donald Trump ha collezionato 59 affermazioni false. In Italia le chiamiamo bufale. Il Tycoon ha esagerato, mentre Hillary Clinton si è mantenuta nella media, ma non ne è stata esente. Per la candidata a presidente degli Usa le menzogne più gravi sono state quelle riguardanti le e-mail. In periodo di elezioni negli Stati Uniti si fa una classifica del grado di falsità dette dai politici all’elettorato: la quasi verità, verità con omissioni o esagerazioni, quasi falsità, bufala totale. Qualche esempio dell’ultima elencata, di cui è stato autore Trump: “risparmierò 300 miliardi sulle spese di Medicare”. In realtà l’intera spesa ammonta a 73 miliardi. “La disoccupazione è al 49%”. In verità è al 5%. Il massimo della finzione si raggiunge ritrattando un’affermazione precedente facendo finta di niente.

 Poi sono apparse le bufale in rete, sui social network; clamorosa quella sul Papa sostenitore di Donald Trump. Un’ altra falsità: la  conquista della maggioranza dei suffragi da parte del candidato repubblicano. I risultati elettorali ci dicono altro: Hillary ha preso più voti (all’incirca 2 milioni di preferenze), ma la conta dei distretti elettorali ha dato la vittoria a Donald Trump. Insomma, le non verità si diffondono e si moltiplicano di continuo; sebbene siano quasi sempre smascherate, riappaiono simile ad una pandemia alla quale non si riesce a porvi rimedio. Come abbiamo evidenziato, nelle ultime elezioni americane sono state talmente invadenti che Google ha dovuto prendere le contromisure per limitarne la diffusione. Allo stesso modo Facebook, il cui fondatore Zuckerberg è stato sommerso dalle critiche. La conclusione pessimistica della studiosa della Bocconi è che “ a spararle davvero grosse (…) si vince alla grande”. Non sono mancati episodi simili in occasione del referendum per l’uscita o meno del Regno Unito dall’Ue (il falso dei 350 milioni di sterline alla settimana come costo di appartenenza All’Unione Europea). E nella nostra campagna referendaria sulla riforma costituzionale appena trascorsa (“Beatrice Di Maio” con account schizza fango).

 Non ci permettiamo di mettere in dubbio le ragioni che hanno portato l’Oxford Dictionary a considerare la post-verità, parola dell’anno 2016. La sua diffusione in rapporto agli anni precedenti è sicuramente un dato importante: “L’uso del termine è aumentato de 2000% rispetto al 2015”. Per quanto ci riguarda non rappresenta una novità il fatto che siamo entrati nell’era della post-verità. Già 20 anni fa Giovanni Sartori in Homo videns sosteneva: “Il bit [la parte più piccola dell’informazione digitale] è il contenuto di se stesso. Vale a dire è tutto quel che circola. Informazione, disinformazione, vero falso, è tutto lo stesso”. Quando si fa strada “la disinformazione [si ha] una distorsione dell’informare, il dare notizie falsanti”. Quindi si era consapevoli fin da allora delle falsità in tv e in internet, ma non si è fatto nulla per evitarle. Anzi si sono diffuse a tal punto da “meritare” l’attestato dell’Oxford English Dictionary. Se non si pone rimedio con severi controlli democratici, saremo invasi da eserciti di devastanti Pinocchi che governeranno con i loro nasi abnormi nei diversi Paesi del mondo.

                                                                                 

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