Lamezia, colonia felina avvelenata: associazioni e volontari sollecitano la bonifica dei luoghi

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Lamezia Terme - É trascorsa già una settimana dall’episodio di avvelenamento di un’intera colonia felina in via Pietro Nenni, ma le polemiche non si placano. Non si placa neanche l’odore acre delle carcasse in decomposizione dei 13 gatti, che sono andati a morire nascondendosi nelle sterpaglie a ridosso di una palazzina abitata. Solo due su 15 componenti dell’intera colonia sono stati recuperati dall’Asp che effettuerà i relativi esami del caso per accertare l’avvelenamento. Nonostante le numerose sollecitazioni delle volontarie rivolte al comune per richiedere la bonifica della zona, nessuno è ancora intervenuto. Anche qualche cane di proprietà ha ingerito il veleno appositamente confezionato per compiere l’atto doloso. Nel frattempo, il comune, ha annunciato che si costituirà parte civile solo nel caso in cui verrà identificato il colpevole. Ancora una volta, a fare la battaglia in trincea e a mani nude sono le associazioni che operano sul territorio insieme alle singole volontarie che avrebbero voluto maggiore sostegno da parte delle istituzioni. Il comune, infatti, essendo per legge proprietario e responsabile delle colonie feline, si sarebbe dovuto fare carico direttamente della denuncia contro ignoti per dare un segnale forte a monito di quanto accaduto e per ricordare a tutti i cittadini che la violenza perpetrata nei confronti degli animali è un reato secondo l’art. 544-bis del codice penale, punito con la reclusione da tre a diciotto mesi o con multe che variano da 5.000 a 30.000 euro. Quasi tutti i componenti della colonia stanziale in via Nenni erano stati sterilizzati a spese della volontaria che se ne occupava, la quale più volte aveva subito minacce dirette da alcuni abitanti della zona indispettiti dai gatti, per le quali aveva sporto ben due volte denuncia.

La sterilizzazione e reimmissione sul territorio: un’opzione concreta

In una società civile le colonie feline verrebbero dichiarate protette e riconosciute dalle istituzioni, le quali dovrebbero farsi carico delle sterilizzazioni e dispensare le cure sanitarie necessarie, come succede in tante città d’Italia. Il discorso infatti è molto complesso: alcuni studi etologici sviluppati da studiosi della formazione cinofila, come Michele Minunno, che ha cooperato per il contenimento del fenomeno randagismo per la regione Puglia, dimostrano come una colonia stanziale o un branco di cani randagi, effettuate le dovute sterilizzazioni, fungano da protezione del territorio stesso contro l’intrusione di altri randagi o di altri animali anche selvatici. Una volta eliminata una colonia o un branco, ci sarà sempre, infatti, nella medesima zona un altro gruppo di randagi a sostituire quello precedente. La sterilizzazione di massa con reimmissione sul territorio è dunque la risposta all’annosa questione randagismo che attanaglia il comune di Lamezia. Andrebbe a risolvere anche il problema dell’aggressività, principalmente dovuta all’istinto di doversi contendere la femmina in calore.

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É questo che i cittadini stanno chiedendo a gran voce ad Asp e amministrazione comunale che continuano a palleggiarsi la soluzione tra gli appelli disperati dei volontari e le proposte concrete avanzate da alcune associazioni ad esempio: Rifugio Fata onlus ha proposto la concessione gratuita del proprio ambulatorio per le operazioni di sterilizzazione dei randagi e le relative degenze, per sopperire all’assenza effettiva di un ambulatorio a norma nel canile comunale che impedisce di fatto di venire a capo del problema. Rimane da scavallare la condizione secondo cui per l’articolo 3 comma 2 della legge regionale 3.03.2004, in merito a cattura, sterilizzazione e reimmissione sul territorio di provenienza dei randagi. L’animale, dopo l’avvenuta sterilizzazione dovrà essere certificato da un veterinario comportamentalista come “cane socievole e non pericoloso per l’incolumità pubblica” prima della liberazione sul territorio. Ad oggi nessun veterinario ha intenzione di assumersi tale responsabilità, anche se si tratta di una certificazione che non può avere valore assoluto nel tempo. Responsabilità demandabile, di conseguenza, al sindaco, in quanto proprietario dei cani vaganti, il quale potrebbe stipulare una polizza assicurativa al il fine di autotutelarsi. Così associazioni e volontari, censiti e riconosciuti dal comune, potrebbero continuare a svolgere il loro lavoro che dovrebbe essere di supporto alle istituzioni, senza doversi sostituire ad esse, come di fatto accade attualmente, per tamponare l’emergenza.

Il peso del problema che grava sul mondo del volontariato

Centinaia sono i randagi che vengono accollati ogni anno alle onlus e ai volontari che si sostentano solo grazie a donazioni private o a raccolte fondi. Enorme è il loro lavoro che si articola non solo nell’immediato soccorso o nell’accoglienza, ma passa per dei percorsi riabilitativi dell’animale fino all’adozione. Questo processo dovrebbe funzionare fino allo svuotamento dei canili e dei rifugi, o per lo meno fino al raggiungimento di un numero contenuto di elementi in gabbia a cui sarebbe possibile dedicare una maggiore attenzione. Ma tutto ciò in questo momento non avviene perché il volontariato vive una condizione di loop: per tanti animali che vengono adottati, altrettanti arrivano provenienti da cucciolate casalinghe, abbandoni o dai randagi che si riproducono sul territorio senza controllo. Ma la storia non finisce qui, oltre al danno anche la beffa per il mondo del volontariato che oggi si ritrova a dover fare quadrato attorno ad una volontaria multata dai vigili urbani mentre si accingeva a sfamare una colonia felina. Sanzionata “per aver insudiciato il marciapiede di via Indipendenza con acqua e crocchette” recita il verbale. Peccato che non le avessero lasciato neanche il tempo per ripristinare lo status quo del marciapiede che già di per se era ed è ancora abbandonato alla totale incuria per l’erba alta e l’accumulo di rifiuti.

Dora Coscarelli

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