Stuprata dal branco a 13 anni e ripudiata dal paese nel reggino, il caso finisce a “Le Iene”

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Taurianova (Reggio Calabria) “Avevo tanta paura, il mio cuore batteva forte, si muovevano solo gli occhi, erano la mia unica via di fuga. Ho solo pregato dentro di me che finiva tutto”. Sono le parole di Annamaria Scarfò, una giovane ragazza della provincia di Reggio che ha deciso di raccontare la sua storia al programma televisivo “Le Iene”. Nel corso della puntata di domenica sera de "Le Iene", è andato in onda il servizio della giornalista Nadia Toffa che ha lasciato che fosse proprio lei, la protagonista di questa storia, Annamaria Scarfò, ripresa di spalle per non farsi riconoscere, a raccontare quello che qualcuno, l'aveva costretta a vivere. Una storia che comincia molto tempo fa: ora Annamaria è una giovane donna ma diciotto anni fa, di anni lei ne aveva solo 13 e aveva avuto la sua prima cotta per un ragazzo che, da tempo, l’aveva cominciata a corteggiare, facendole delle promesse che facilmente riescono a far leva su una ragazzina. Una volta conquistata la sua fiducia, però, quel ragazzo l’ha tradita: il suo principe azzurro si è trasformato così in un mostro che, un giorno, l’ha portata in un posto isolato, dove si trovava un casolare, dove l’aspettavano altri suoi amici che hanno cominciato a usarle violenza, per poi abusare sessualmente di lei. Più volte, per due anni di seguito. Una storia triste, di degrado e sofferenza, nell’indifferenza di tutti, compreso chi, quella ragazza poteva e doveva aiutarla. Come il parroco del paese a cui lei, il giorno dopo la prima violenza, si era rivolta e che le ha consigliato di insabbiare la cosa. Parroco che è stato anche condannato ad un anno, pena sospesa, per falsa testimonianza.

Annamaria racconta che era il giorno del suo tredicesimo compleanno, una data che non potrà mai dimenticare. Da quel giorno di violenze ne subì tantissime, per anni, ripetutamente. Racconta che quando sentiva quella macchina passare sotto casa, sapeva già cosa volesse dire e che non poteva ribellarsi perché loro la minacciavano, e lei, ragazzina, credeva che quegli uomini potessero essere capaci di tutto. In effetti si trattava di un branco di uomini senza scrupoli, condannati un anno fa anche in Cassazione che ne ha riconosciuto la colpevolezza. Quando lei provava a ribellarsi, loro la picchiavano e la cospargevano di benzina, proferendole frasi terribili. “Mi usavano per scontare dei favori” ha raccontato alla Toffa: se un membro del gruppo aveva un debito con qualcuno, la usavano come merce di scambio. Non era più una persona, non più una ragazzina di tredici anni, ma un oggetto sessuale con il quale scaricare le loro frustrazioni di uomini adulti.

Dopo due anni di calvario, è scattata una molla che le ha fatto dire basta. La molla è stato l’amore nei confronti di una persona, sua sorella, che sarebbe diventata, nell’immaginario di quegli uomini, il loro nuovo giocattolo. Quando lei aveva compiuto quindici anni, infatti, il branco voleva prendersi la sorella tredicenne. Ma è stato a quel punto che Annamaria ha detto basta e si è decisa ad andare da carabinieri per denunciare quello che stava subendo. Ma da lì, finito un calvario, ne è cominciato un altro.

“E’ la ragazza che li ha provocati”. “E’ una prostituta, una infame”. “Bastarda che ha rovinato un paese, cagna lorda”. Questi sono solo alcuni degli epiteti, e neanche dei più meschini, utilizzati dai compaesani di Annamaria per dipingerla. Sì, perché dopo la disperazione della violenza fisica e psicologica subita dai suoi aguzzini, è cominciata quella psicologica di quasi tutto il paese che ha deciso di lasciarla sola, e stare vicino, invece, a chi l’aveva violentata. Perché è più facile dare la colpa di questa crudeltà ad una ragazzina che ha subito la violenza per anni, piuttosto che colpevolizzare i suoi carnefici. Quello che ne è venuto fuori dalle dichiarazioni raccolte con la telecamera nascosta, è che lei non avrebbe dovuto denunciare, che queste sono cose che succedono e che è stata colpa sua perché le ragazzine “gonne non se ne devono mettere”. “Se l’è cercata” la frase che ripetevano più spesso, uomini ma anche donne, comprese le mogli dei colpevoli e che continuano a difendere a spada tratta i loro mariti, ripetendo che lei si è inventata tutto, nonostante carta canti e le condanne siano arrivate in tutti i gradi di giudizio.

Annamaria ora è letteralmente scappata per ricostruirsi una vita: “Via dalla terra dell’onore e del rispetto”, così ha commentato ora che vive sotto un altro nome e sotto protezione, come chi ha denunciato i più atroci ‘ndranghetisti. E’ il paradosso di una terra come la Calabria, dove esistono ancora persone, non tutte fortunatamente, che credono che la donna debba subire, sottostare e sottomettersi alla violenza, che sia dei padri, dei mariti, dei fidanzati o degli sconosciuti, purché uomini perché come ha commentato un compaesano di Annamaria “I fimmini su colpevoli”.

Non solo denigratori perché c’è stato anche chi le è stato vicino, così come racconta la Toffa nel servizio: c’ stato il Comune di Cinquefrondi che l’ha supportata anche in aula, durante il processo, quando entrava e veniva insultata. Michele Conia, il sindaco di Cinquefrondi, ha voluto ricordarle che nonostante fosse stata trattata come una “malanova”, c’è anche un’altra Calabria che le sta affianco. Sono passati tanti anni da quel periodo, e il consiglio di Annamaria alle donne che vivono questa tragedia è quello di “Non tenere dentro questo dolore e denunciate, perché la giustizia esiste, è lenta ma c’è. Riprendetevi la vostra vita”.

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