A me “La sposa” è piaciuta. Per quel che può valere la mia opinione

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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Di solito, alla sera, non guardo la televisione. Non per spocchia intellettuale, ma perché, semplicemente, fra i tipi psicologici, rispetto al sonno, mi considero un’ “allodola”: fra le 10 e le 10:30, normalmente, vado in catalessi; ed al mattino alle 4 sono già con gli occhi sbarrati. Ciò non di meno, ieri sera mi sono sforzato di vedere su RAI1 l’ultima puntata della miniserie “La sposa”, regia di Giacomo Campiotti, soggetto di Valia Santella, con protagonista femminile Serena Rossi. Avevo letto poco delle polemiche apparse sui social verso il film TV – alcune provenienti anche da persone autorevoli e che stimo – che lamentavano errori storici e pregiudizi anti-calabresi (qualcuno, se ho ben capito, anche anti-veneto). Perciò ho guardato la puntata senza prevenzione. E dico subito che l’ho trovata davvero pregevole, per essere una fiction della TV generalista attuale. Lodevole il soggetto, disallineato ai gialli ed ai polizieschi con relativi ammazzamenti che imperano. Ottime, regia e sceneggiatura: nulla di simile alle sciatterie che circolano. C’erano cura e semplicità insieme, ed un buon ritmo, che non induceva noia. Bella la fotografia e belle le ambientazioni ed i costumi. Né mi è parso che la realtà storica sia stata troppo forzata (ma in una fiction è consentita un po’ di libertà). Devo dar atto che Serena Rossi è stata un’interprete magnifica: come attrice è completamente diversa dai volti generalmente cupi, monocordi, rifatti, ossessionati delle tante attrici che vanno per la maggiore in Italia. Brava Serena! Per come si è calata nel ruolo della “calabrotta” (per citare un termine coniato per le ragazze calabresi che, effettivamente, negli anni Sessanta si trasferirono al Nord, soprattutto nelle Langhe piemontesi, per sposare uomini del luogo – ricordo, fra gli altri, i riferimenti di Nuto Revelli in “L’anello forte” e quelli del collettivo di scrittura Lou Palanca in “Ti ho vista che ridevi”): è un dato storico che le donne calabresi contribuirono alla ripresa dell’agricoltura in quelle aree. Un personaggio appassionato, la “Maria” del film, attivo, solidale, dotato di senso etico. Insomma, un bel colpo assestato contro lo stereotipo delle donne calabresi rassegnate, “familiste” (come voleva tutti i meridionali Edward C. Banfield, autore di una discutibilissima indagine sociologica dal titolo “Basi sociali di una società arretrata”), succubi della malavita al maschile. Anche la Calabria – fisicamente assente dalla scenografia – ne esce bene. È vero che nella serie c’è la figura del malavitoso calabrese, anch’egli trapiantato al Nord, innamorato di Maria, che le brucia la stalla uccidendole il marito. E che porta sulla cattiva strada il fratello della stessa Maria. Ma la malavita organizzata in Calabria ed il tentativo di assoggettare le donne da parte degli uomini è una realtà che non si può nascondere. La protagonista femminile de “La sposa”, con il suo coraggio riscatta, alla fine, un’intera regione, e lo stesso universo femminile della Calabria. Coniugando afflato sociale (il coinvolgimento dei contadini del luogo, innanzitutto le altre donne), scelta per il bene, abiura del male e coscienza ecologica (quando si batte contro l’uso di un pericoloso pesticida nelle piantagioni). Ed il riscatto della Calabria è completato dal pentimento finale del fratello di Maria che consente la punizione del malavitoso colpevole. Insomma, per quel che può valere la mia opinione (non sono un cinefilo), a me è parso che gli autori della miniserie abbiano reso un buon servizio alla Calabria. Una volta tanto.

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