"Antologia di Spoon River fra le montagne di Davoli"

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova_5177a_37863_9c179_3f6c2_f8d7a_24db1_bba7a_dbf5d_6eed1_80845_92e3f_117f2_9ee48_a31fa_e8d49_ef4d1_02179_52764_f6832_5e287_f5211_44955_3c15b_741e3_ea864.jpgMattina tiepida. Una di quelle finestre di primavera che spesso scaldano gli inverni calabri. Ho accolto l’invito degli amici di Davoli a visitare le loro montagne. La luce del sole risplende su questo mondo sospeso fra cielo e mare, due azzurri che si riflettono su una terra benedetta da Dio. Un luogo unico, nella sua struggente, malinconica bellezza. Un luogo che soffre, come altri, di abbandoni ed amnesie. Non basta il rispetto, per posti come questo. Occorre devozione. Come per le persone. La devozione è ben più alta del rispetto. Questo è un valore morale che ci impone di non recar danno a qualcuno o qualcosa. Quella, invece, è un sentimento che involge la consapevolezza del sacro. Ora, se la regola morale è di per sé relativa (può cioè essere modificata dalle culture), la devozione, invece, è un moto interiore, incontenibile, immutabile.

Stavolta il cammino principia dalla foresta di faggi, nei pressi della Lacina, una grande conca inframontana sul lato orientale delle Serre, che ora ospita un lago. Questi boschi sono essi stessi edifici di culto di cui si è persa memoria. Si narra che gli architetti delle cattedrali gotiche, traessero ispirazione proprio dalle faggete: gli alberi dai grigi fusti colonnari che paiono colonne, le radici superficiali disposte come capitelli rovesciati. C’è un senso di austera bellezza, di elevazione spirituale, di elegante semplicità che promana dalle faggete mature. Camminiamo sulla frusciante lettiera di foglie seguendo il corso del Torrente Ancilanesca, contornati da alberi di tutte le dimensioni, dai giovani virgulti ai tronchi semi-marcescenti sopravvissuti chissà come ai tagli. Acque copiose scendono da tutti i lati in piccole rapide tintinnanti. Massimo e Pietro ci guidano, entusiasti, innamorati, devoti ai loro luoghi. Una breve digressione porta ad un ammasso di graniti. I boschi delle Serre pullulano di formazioni litiche dalle quali si traevano pietre da scalpellare perché ornassero costruzioni sacre e profane. La rupe ha forme arrotondate, levigate, con spaccature e crolli dovute al tempo, al vento, al sole, alla pioggia. I suoi anfratti furono nascondigli di briganti. Le giriamo intorno, penetriamo fra i suoi meandri come fosse una rovina, un monumento. Oggi è sommersa dalla faggeta, ma sino a metà del Novecento doveva emergere allo scoperto, contornata di prati e pascoli: come una enorme pietra miliare, alla quale facevano riferimento i viandanti nel cercare il cammino.

Al confine fra la faggeta e il bosco di lecci, incontriamo grandi abeti bianchi isolati, che paiono candelabri. Sono relitti di formazioni di conifere un tempo ben più estese. Nel folto del bosco ecco delle case di pietra dirute. Nella stalla due vecchi scarponi di cuoio appartenuti forse ad uno degli ultimi abitatori del luogo. La loro pelle è gonfia di umidità e picchiettata di muffe. Stanno lì, a presidiare quell’umile altare come segni eloquenti di un rito della memoria, la dea che i greci chiamavano Mnemosine. Attraversiamo una fitta lecceta sino a sbucare su una pendice ancora coltivata con castagneti da frutto. I grandi alberi sono disposti ordinatamente ed accuditi da mani sapienti. Producono i loro frutti un tempo preziosi. Massimo e Pietro, con altri amici di Davoli, hanno restaurato una delle antiche “pastillare”, le casette di pietra, quasi lillipuziane, dove si affumicavano le castagne. Più giù, Pietro ha costruito una piccola casa di legno completa di ogni comodità. È qui che sediamo per rifocillarci. Poi giù, per l’ultimo, lungo tratto sino al luogo in cui abbiamo lasciato, al mattino, una delle auto. Massimo, Pietro e Saverio vanno a recuperare l’altra auto alla Lacina. Roberto ed io ci godiamo invece, lentamente, il pomeriggio che s’inchina alla sera coprendo il resto del cammino sino al paese. È un momento di malinconica dolcezza. Le rovine di una casa padronale si stagliano sull’azzurro del Mar Ionio. Un magnifico uliveto con una casetta lillipuziana ed un branco di pecore è un quadro che pare uscire dagli idilli di Teocrito. Infine, il cimitero del paese. Sostiamo a lungo sul lato della strada che lo sovrasta. Si vedono le tombe. Come in una novella “Antologia di Spoon River” leggiamo gli epitaffi sulle lapidi più vicine. Ci commuovono i volti miti di ottuagenari e nonagenari che non hanno fatto in tempo, forse, a vedere “la crisi dei presepi” come il geografo Francesco Compagna definì la decadenza di questi piccoli paesi arroccati sulle alture che per secoli avevano rappresentato il cuore abitativo della “old” Calabria. Ma Davoli è ancora un “presepe”, forse addirittura un presepe vivente. Nessuno più si affretta per le vie del paese all’imbrunire per raggiungere la propria “grotta” col “bambinello”, come accadeva cento anni fa. Non ci sono le botteghe artigiane flebilmente illuminate dalle tede o dalle lampade ad olio. Non ci sono i pastori che ricoverano le capre negli ovili e i contadini che tornano a casa dai campi. C’è però ancora qualcuno – i discendenti di quei volti sulle lapidi – che resiste. Qualcuno che ha fatto della devozione per i luoghi la sua stessa ragione di vita.

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