Gole e cascate del Grandecaccia. Un elogio della paura e della tenerezza

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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 Sono inquieto stamane: ieri ho stupidamente ascoltato i telegiornali, impegnati a creare il panico per l’epidemia. E sono solo: gli altri si sono dati al carnevale, ai pranzi, alle feste, ai viaggi. Natale mi ha avvertito che con i suoi celebrerà un rito di riconciliazione nel Grandecaccia, una gola fluviale dell’Aspromonte settentrionale, in territorio di S. Giorgio Morgeto. Percorsi anni fa la parte bassa della valle, da Cernatali, un grumo di case di pastori sospeso su un costone a picco sulla fiumara. Ma non arrivai alle gole, conficcate come un micidiale taglio sul fianco nord di Serra della Lùcrina. Non resisto alla tentazione. E parto. Sulla Limina, l’alto valico fra le Serre e l’Aspromonte, vento forte, nebbia gelida. La strada è un calvario di frane e buche. Non c’è anima viva. Qualche casa abbandonata. Improbabili cartelli stradali divelti, sforacchiati, abbattuti. Sono attorniato da un paesaggio spettrale. Arrivano gli altri. Ho appena il tempo di avvolgermi negli indumenti, che siamo già nell’intrico dei lecci, delle ginestre spinose, delle eriche. Giù verso l’abisso. Se non ci fossero gli abissi non ci sarebbero le montagne, disse qualcuno. In Aspromonte si comprende bene: se vuoi andar per monti devi prima calare nel vuoto che sta sui loro fianchi. Ogni traccia degli antichi camminamenti è stata cancellata. Apriamo varchi con seghetti, con roncole e con le mani. Cambiamo traiettoria in base al “rastu” (il fiuto) di Natale e di Nicola. Pencoliamo su baratri. Intanto il cielo, che si era svelato, torna a ingrigirsi e a minacciare pioggia. Se volevo peggiorare il mio umore non potevo scegliere meglio. Ma vado giù come un animale assetato in cerca dell’acqua. Finalmente un vuoto fra gli spini. Ecco il fiume, buio, tetro …   magico. Indossiamo i caschi. Ora siamo una tribù guidata dallo sciamano. Guadiamo ripetutamente. Arrampichiamo fra i massi instabili. Girata un’ansa, ecco la cascata, alta una quarantina di metri. Nicola s’inerpica sul filo di una cresta stracciata, cucita appena dalle radici portentose dei lecci. Lo seguo. Ma so che siamo sul nulla. La cresta è come un’ostia fra i meandri del fiume. In qualunque momento può franare, liquefarsi, sparire. E liberare la strada dritta all’acqua. È così che funziona la natura. La distruzione precede la creazione. Il morire serve al nascere. Ma noi crediamo di essere immortali.

Sino a che qualcosa ci riporta con i piedi per terra: l’età che avanza, una malattia ... l’epidemia, l’avvertire il pericolo, la paura. Come oggi. Come qui. Come in questi attimi di sospensione fra il fragore della cascata e la voce di Nicola che mi ghigna se per caso non mi sia incantato e non voglia restar qui, per sempre. È strana la paura. A volta occorre la paura per renderti consapevole. Come profetizzò Konrad Lorenz nell’ultima intervista prima della morte, nel 1989: occorrerà una grande catastrofe in una megalopoli di milioni di abitanti perché l’umanità prenda coscienza del male che ha fatto alla Terra e a se stessa. O come scrisse Hans Jonas nel 1979 ne “Il principio responsabilità”: occorre un’euristica della paura per fermare la profanazione del presente in vista del futuro, per impedire l’acquisto di quest’ultimo al prezzo del primo. Siamo dei privilegiati noi occidentali. In Africa, in Sud America, in Asia convivono da sempre con le malattie, le epidemie, la fame. La povertà, la disuguaglianza, l’ingiustizia, sono antiche epidemie, contro le quali noi, i ricchi, i sani, facciamo troppo poco. Non bestemmiamo, oggi che la paura ci fa toccare con mano quel che non abbiamo mai voluto vedere. Il ritorno è pieno di cautela. Sfiliamo silenziosi nel ventre del drago. Come per un incantamento propiziato dal rito, la paura trasmuta nella lucida consapevolezza della condizione umana, nell’umiltà verso il Tutto, nella tenerezza verso coloro che soffrono prima e più di noi.

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