Nelle Indie di quaggiù. Ragonà e la linea d’ombra

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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Notte dura per la Calabria. Temporali hanno flagellato lo “sfasciume pendulo sul mare”, come definì questa terra Giustino Fortunato. E lo sfasciume è appena sceso a mare. Nel buio che precede l’alba, mentre percorriamo la statale ionica, ruspe sgombrano la strada da cumuli di fango e massi.

Non so come si formi nella mia mente il richiamo di un luogo. A volte, è il luogo stesso ad attrarmi a sé, misteriosamente: sta sulla Terra, ma nello stesso tempo è latenza sepolta nella psiche. Ieri sera, dopo la messa, ho pensato con intensità – senza una ragione apparente - a quel grumo di case artigliate al più instabile degli sfasciumi calabri: un costone che da Monte Gremi precipita sul letto mugghiante dell’Allaro. Così instabile che nel 1951, dopo l’ennesima alluvione, il governo italiano decise che i vinti (Nuto Revelli), i sudici (Gioacchino Criaco) dovessero sgombrare dalla terra degli avi, dove stavano i loro pochi averi, gli orti, le greggi, i grandi castagni, il bosco impenetrabile. Vennero i prefetti e i carabinieri. La gente andò via. Non per la frana, che non ci fu mai. Ma perché scomodi, laggiù, in quel misto di paradiso e inferno, dove nessuno poteva averne il controllo. Tant’è che qualcuno è rimasto, qualcuno è tornato, qualchedun altro viene in pellegrinaggio. Come si va a un santuario o al camposanto.

Nessun segno, nessun pretesto. Solo un vago sentore del fumo dei comignoli esposti al vento della valle, e del fragore del fiume giù nelle gole. Un sentore che ti resta dentro, come uno stigma. Soprattutto se hai letto “Sole nero a Malifà” di Sharo Gambino o “Il senso dei luoghi” di Vito Teti. Se hai, cioè, conosciuto la storia di Ragonà. E quella del suo dirimpettaio, oltre l’Allaro, Nardodipace vecchio. Due villaggi che sono lo stesso paese. Ma che sono anche un paese da sempre diviso in due; cui il fato ha riservato un’ulteriore, doppia separazione, dopo l’alluvione: Ragonà trasferito a Cassari; Nardodipace a Ciano. Un paese cui nessuno mai attribuirà l’aulico nome di “borgo”, che va tanto di moda. Qui non ci sono suggestioni artistiche o archeologiche, non ci sono statue o quadri famosi. Ci sono solo gli ultimi: i fantasmi di chi è andato via; gli spettri di chi è rimasto, nonostante tutto. E ci sono le case sbilenche, fatte di pietre e di estensioni di mattoni e calcestruzzo, con i tetti di tegole ma anche di eternit e lamiera, con i vichi in cemento sporchi d’ogni cosa, con gli usci chiusi e quelli aperti, sfondati, con le finestre di legno e d’alluminio che guardano gli abissi. E tutt’intorno il cesello dei terrazzamenti, della terra da coltivare rubata alla montagna e al bosco. E nelle case la voce di un bimbo, che pare un sogno, in quel silenzio e in quella solitudine.

Giungiamo qui da La Ficara di Caulonia. Camminando su una stradina a picco sulle gole dell’Allaro: in un punto si intravede anche l’antico convento di Sant’Ilarione, dove vive l’eremita Frédéric Vermorel, che andremo a trovare a sera. Attraversando l’abbandono di Salincriti, dove è la più alta concentrazione di rovine, quelle del passato e quelle della modernità: carcasse d’auto, televisioni, lavatrici, frigo, mobili, utensili, oggetti vari. Dove la melanconia è una dimensione struggente, commossa, inestinguibile. Passando nel nido celato di Agrelli, dove scorre un ruscello ed un paio di contadini ancora stanno negli orti, soli, imperturbabili nei loro volti scuriti dal sole. Arrancando, infine, per un sentiero che penetra nella giungla incaica della valle. Appeso fra una rasula ed un’armacera, franoso, instabile, avvolto fra i castagni, i lecci ed una vegetazione indigena che re-inghiotte tutto. Siamo nelle “Indie di quaggiù”, come chiamarono, sul finire del ‘500, anche il Sud Italia i gesuiti che erano stati mandati ad evangelizzare l’America e che cercarono in Europa le ultime sacche di miseria e paganesimo.

Il cielo, che si era schiarito all’inizio, è tornato grigio e minaccioso. Sono inquieto, perché essere colti qui da un temporale sarebbe cosa dura. Un bucranio infilzato su un palo ci indica l’ultimo tratto del sentiero, affiancato ad un antico acquaro. La nebbia ci avvolge, fiotta, aleggia, si dissolve, torna alle nubi. E d’improvviso, in una cornice di rami, compare lui, il paese, la latenza sepolta della mia psiche. Velato, stinto, fragile, appeso. Con quel sentore dei camini e del fiume, come l’avevo custodito nel profondo.  

Ora sediamo nella piazzetta del villaggio, a riposare. In una casa una famiglia sta desinando. Escono con qualche scusa per osservarci. Sanno che siamo innocui: pellegrini ignoti che di tanto in tanto sbucano dalla giungla, con gli zaini carichi, e poi se ne vanno, inghiottiti di nuovo dal bosco che è il confine fra due mondi, la linea d’ombra di una civiltà perduta. 

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