Nicastro tra Seicento e Settecento

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Iuffrida_matita-OK_0e788_db425_50701_ad838_a3ec4_50f5e_39a7a_13eda_4fdc6_624ba_cd20f_d090e_68191_ef208_86daa_446de_c41db_74bf5_32fa5_e8968_96db0_ad00e_451fa.jpgGli storici locali esprimono sui d’Aquino un giudizio molto negativo, attribuendo soprattutto all’ultima principessa della casata, Vincenza Maria (1734-1799), la responsabilità di avere abbandonato a sé stesso il Feudo di Nicastro nella seconda metà del Settecento.

Nella valutazione complessiva bisognerebbe mettere sui piatti della bilancia tutto ciò che riguarda la sua vita, soprattutto con riferimento all’ambiente sociale, alle vicende storiche e alle condizioni personali.

Qualche dato biografico: Vincenza Maria nasce a Napoli nel dicembre del 1734, proprio in coincidenza con il ritorno dei Borbone alla guida del Regno, con il nuovo re Carlo che pochi mesi dopo si affretta a ricevere la corona a Palermo. Vincenza Maria, appena quindicenne, sposa, il 13 giugno 1749, il consanguineo Landolfo d’Aquino ma – dato molto significativo – senza concepire eredi. All’età di tre anni rimane orfana del padre, subendo un costante bisogno di protezione: il padre adottivo Giovanni Battista Protonobilissimo non poteva sostituirsi pienamente nel ruolo. Sono queste alcune delle ragioni fondamentali che, instillando insicurezza, spingono la principessa a consolidare il suo atteggiamento apparentemente distaccato nei confronti del Feudo di Nicastro, scegliendo di vivere nella sua villa di Posillipo, dove peraltro la sua famiglia aveva vissuto, con più facili protezioni politiche, il difficile periodo del dominio degli Asburgo d’Austria (1707-1734). L’atteggiamento apertamente antiaustriaco della famiglia d’Aquino, che apparteneva a quella folta schiera di baroni della provincia rimasta fedele ai Borbone, è da ritenere la causa principale dell’abbandono della residenza baronale del Feudo di Nicastro, già da parte di Alessandro Pico, che ne assume il governo alla morte di Giovanna (26 ottobre 1711), in pieno periodo di dominio degli Asburgo.

Per inquadrare rapidamente il rapporto dei d’Aquino con la città di Nicastro, va fatta una distinzione netta tra diversi periodi, che come è facile immaginare, cambiando i protagonisti e i contesti storici, sono destinati a determinare considerazioni e giudizi assai contrastanti.

La prima valutazione riguarda i riflessi sull’edilizia urbana del ruolo dei d’Aquino nella guida del Feudo di Nicastro. Un’azione significativa, perché non appena acquistano il Feudo dai Caracciolo (il 29 novembre 1607, convalidato dalla Regia Camera nel 1611), Carlo assume la decisione di avere la residenza principale proprio a Nicastro e non a Castiglione, offrendo un’occasione di prestigio alla città. La ragione della scelta è duplice: la prima riguarda l’ottimale esposizione a sud dei terreni acquistati (nel 1612 acquista anche le Terre di Serrastretta e Feroleto), con significative ricadute sul piano produttivo, la seconda riguarda la straordinaria posizione strategica difensiva della città, che era quanto di meglio potesse offrire la natura. La presenza della nobile famiglia, appartenente ad una delle Serenissime sette grandi case del Regno di Napoli, di fatto funge da attrattore sociale ed economico mettendo in movimento tutti i settori produttivi e determinando un’incessante sequenza di compravendite di terreni che giustificano l’alto numero di professionisti residenti in città (notai, amanuensi, medici, speziali, ecc.). Di conseguenza, questo dinamismo si colloca alla base della crescita edilizia con la costruzione di «case palazziate», offrendo le premesse urbanistiche per la creazione delle “rughe”, che si completeranno all’interno del binomio casa-orto murato durante il corso del Settecento. I due conventi (dei Domenicani e dei Riformati con gli annessi grandi orti-giardino), preesistenti sin dal secolo precedente, rappresentano il confine ideale della città in espansione, svolgendo ancora un ruolo culturale ed economico importantissimo. La stessa ubicazione del convento domenicano, lungo l’antica strada che conduceva alla Marina di Sant’Eufemia e a Catanzaro nella direzione opposta, dà senso al contiguo ospedale dell’Annunziata disposto proprio a favore di viandanti e pellegrini di passaggio. In questo preciso contesto storico, il vuoto urbano “la Piazza Grande”, che si qualifica come luogo del commercio comprensoriale, si sostituisce all’antico coltivo denominato “la Coltura”, posto a valle del nucleo storico medievale e circoscritto dalle linee di confluenza dei due torrenti Canne e Piazza.

Nel distruttivo terremoto del 1638 perde la vita Cesare d’Aquino, ma accade che la gravità dell’evento suscita un fortissimo quanto spontaneo patto di solidarietà istituzionale, tra la nobile famiglia, il vescovo e il sindaco Prospero di Trapani, con lo scopo primario di concorrere alla ricostruzione. In questa circostanza, i d’Aquino si distinguono per straordinaria solerzia, innanzitutto con la cessione di una consistente area per la realizzazione della nuova cattedrale, ivi compreso il proprio palazzo danneggiato dal sisma, ricostruito come sede dell’episcopio, e contribuendo concretamente alla ricostruzione della chiesa di San Domenico (del contiguo convento ancora oggi è leggibile la traccia della muratura perimetrale originaria). Nello stesso periodo si ricostruiscono i fabbricati delle più importanti famiglie del tempo a valle del borgo medievale, che confermava ancora tutte le caratteristiche popolari originarie. La fondazione nel 1686 del nuovo casale di Sant’Angelo (Platania), in seguito all’esondazione del Piazza del 18 ottobre 1683, rientra nell’intensa attività della famiglia d’Aquino, in parallelo alle opere di difesa dell’abitato, con un muraglione e la deviazione del punto di confluenza dei due torrenti Piazza e Canne. Tutto frutto di un legame forte con la città che dura sicuramente fino al 1711, dimostrato anche dalla stabile permanenza a Nicastro della principessa Giovanna, dove peraltro aveva trascorso l’infanzia e dove, il 6 maggio 1657, nasce la figlia Caterina; e qui, nel 1672, si sposa la figlia Antonia.

La seconda valutazione riguarda l’ampio spettro economico-finanziario della gestione del feudo e dei rapporti con gli amministratori della città (sindaco e parlamento locale).

La forte posizione debitoria della città nei confronti dei Caracciolo prima e dei d’Aquino dopo è all’origine degli attriti che si concluderanno soltanto nel 1810 con la decisione della Commissione feudale, quale effetto però della generale politica di eversione della feudalità. Già al momento del trasferimento del Feudo dai Caracciolo ai d’Aquino, il debito ammontava a «migliaia di ducati», anche perché questi ultimi continuano a concedere prestiti: per esempio, nel 1624 di altri 1.500 ducati. Di fatto, la principessa Vincenza Maria frequenta Nicastro soltanto nel biennio 1765-’66 – in coincidenza con il trasferimento dell’abitazione principale della famiglia dei marchesi d’Ippolito dal quartiere Terravecchia alla ruga “degli Ippoliti” – per affrontare il secolare contenzioso economico-finanziario con l’amministrazione della città.

L’attacco frontale ai d’Aquino si sposta sugli aspetti tributari connessi anche alla formazione del catasto onciario, che viene assunto come strumento di aggressione, di ricatto e di transazione: da una parte si riconoscono alla città gli antichi privilegi concessi dai Caracciolo, dall’altra si concede la dispensa del pagamento della “bonatenenza”, ovvero della tassa di possesso, dei terreni privati (“burgensatici”) della nobile famiglia. Un compromesso che non sana i rapporti tra le due istituzioni e accompagna la città verso il degrado sociale dell’ultimo periodo del secolo, teatro di una lunga e interminabile serie di delitti: dall’incendio doloso del bosco Carrà del 1760, per renderlo seminativo, quale serbatoio occupazionale immediatamente disponibile, ai feroci e sanguinosi scontri tra le famiglie maggiorenti, nel pieno centro cittadino, per impadronirsi del potere pubblico, che nella prospettiva della dissoluzione del feudalesimo poteva consentire una agevole e comoda possibilità di arricchimento.

Se si tiene conto delle gravi lotte intestine alla borghesia locale e del contestuale dominio territoriale del brigantaggio, forse non è così scontato poter dare una grande responsabilità alla principessa Vincenza Maria d’Aquino per aver trascurato il Feudo di Nicastro: sconfitta sì dalla storia ma non da sé stessa.

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