“Questo è per te!”

Scritto da  Pubblicato in Angelo Tedeschi

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Devo aggiungere che i timori per il nuovo corso di studi erano condivisi dai miei ex compagni di classe. Marco confermava le difficoltà iniziali, a detta di suo fratello Sabino impegnato negli esami di licenza media. Ma anche altri erano preoccupati per il cambiamento di mentalità e di metodo.

Quando confidavo le mie inquietudini, zia Silvana palesava ottimismo asserendo che dopo un iniziale periodo di disorientamento, avrei trovato i giusti equilibri. “Hai sempre fatto il tuo dovere a scuola, non vedo di cosa ti debba preoccupare” era il suo commento rassicurante.

Invece, ad ottobre l’impatto fu traumatico, a cominciare da taluni nuovi aspetti logistici. Infatti la scuola media “Giosuè Carducci” era situata sul lungomare ad una distanza maggiore rispetto alla “Mazzini”. Quindi, dovevo calibrare diversamente il tempo per non arrivare in ritardo. Nel contempo, dovevo sempre riservare qualche minuto al ripasso dei compiti svolti nel pomeriggio precedente poiché la rinfrescata mattutina era strategica in vista di interrogazioni cruciali.

Nei primi giorni di frequenza avevo riscontrato cambiamenti significativi, a parte l’unico elemento di continuità rappresentato dalla composizione esclusivamente maschile della classe: niente grembiule nero con il colletto bianco e il fiocco azzurro, più intervalli brevi per il cambio dei professori e, soprattutto, un approccio mentale flessibile rispetto a ciascun docente. 

Ad esempio, c’era il professore di francese Silvio Marzano il quale, fin dalla prima lezione, pretendeva che si parlasse in lingua. Questa imposizione creava grossi problemi specie per chi, alzando la mano dal banco, chiedeva di poter andare in bagno. Inevitabili gli impappinamenti ai quali il professore dai folti capelli d’argento e una fisionomia vagamente somigliante ad un maturo Jean-Paul Belmondo, rispondeva secco squadrando il malcapitato di sottecchi attraverso i suoi occhiali scivolati sulla punta del naso: “Deux!” Per rafforzare il voto bassissimo, per fortuna inflitto solo a voce, allargava l’indice e il medio della mano destra stretta a pugno e con la stessa mano faceva segno allo studente di abbassare il braccio e di restare al suo posto. In ogni caso, era un ottimo e simpatico insegnante, tanto che ancora oggi riesco a comprendere la lingua d’oltralpe e a comporre frasi comprensibili.  

C’era la professoressa di matematica  Felicia Brandi, una donna minuta ed energica, dalla forte carica umana ma anche dalla lingua pungente. Talvolta perdeva la pazienza ed esprimeva il suo vivo disappunto nei confronti di un compagno di classe che aveva riportato un brutto voto ad una esercitazione scritta o in una interrogazione orale. Ma anche la professoressa era una valida docente e, grazie alle basi acquisite nei tre anni di suo insegnamento, ho vissuto di rendita nelle scuole superiori.

Ricordo anche il professore di educazione fisica Matteo Colapinto, un distinto sessantenne dai capelli brizzolati pettinati all’indietro e un eloquio pacato ma incisivo. Era un esperto del codice della strada e si vantava di aver messo a posto un vigile urbano che intendeva multarlo ingiustamente. Durante la sua ora, la classe si trasferiva nella palestra ubicata al piano interrato. La lezione consisteva nella disposizione di noi venticinque studenti su tre file, nella marcia sul posto e, tra gli altri, in un esercizio da me inizialmente temuto in considerazione della corporatura robusta: l’arrampicata sulla pertica. Infatti, fissati al suolo e al soffitto, vi erano due pali in legno ai quali il professore chiamava a turno una coppia di studenti. I gareggianti si posizionavano incrociando il dorso di un piede sul palo in attesa dello start. Al “via” i due dovevano inerpicarsi in cima, fino a toccare i supporti metallici. Una scalata  di quattro, cinque metri, per alcuni agevole, per altri meno e per altri ancora quasi impossibile. 

Il mio approccio con questa prova era stato avaro di soddisfazioni tanto che nei primi tentativi ero rimasto appeso al legno come un salame. Ma, nei pomeriggi trascorsi lungo le via adiacenti a casa, mi allenavo arrampicandomi sui pali segnaletici in ferro posti in prossimità di talune intersezioni stradali. Tuttavia, scalare un palo in metallo sembrava più agevole rispetto a una pertica legnosa. Nel primo caso la circonferenza era inferiore e notavo che l’interno ginocchio, sempre scoperto per via dei pantaloni corti all’inglese, aderiva maggiormente al metallo; invece, nel secondo caso, era necessario stringere forte le gambe sperando di non scivolare. 

(fine seconda puntata)

di Angelo Tedeschi 

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