Soleo, Pisarello, Tacina, Piciaro. I figli dei fiori e la libertà

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova_80da1_19973_ea258_59f1c_e96f0_cec4f_df014_db513_eb6b5_f8fb1_2c83a_da5cd_ac61d-1_c49d8_8565a_1a702_73902_90cc3_d8d69_c1afb_508ed_14fbf_1602e_c1835_27877.jpgSono lì ad attenderci. Frotte e moltitudini. Come le stelle in cielo. Chiazze di colori disseminate sulle praterie del Soleo. Viole, orchidee, narcisi, botton d’oro, margherite: arazzi incorniciati fra pini, faggi, prati, cielo. Spazzati dallo scirocco che segna la nostra ritrovata libertà dopo la pandemia. Ricordate fra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ‘70, i grandi concerti rock? La parola più gettonata era proprio “freedom”, libertà. Come nel famoso hit di Jimi Hendrix. Gli hippies, i “figli dei fiori” ne fecero una parola d’ordine. Per loro “freedom” significava libertà dalle convenzioni sociali, dai tabù, dai dogmi, dalle imposizioni, dall’obbedienza al potere, in tutte le forme: famiglia, società, patria, etica. In quegli anni ero affascinato anch’io dai loro simboli. Ma oggi mi accorgo che quel movimento fu invece fra i più conformisti della storia moderna. Si, perché non si trattava di figli di quei fiori che crescono, liberi e solidali, sui prati del Soleo, ma di figli dell’idea liberale - e poi liberista - del mettere innanzi a tutto lo sfrenato vitalismo, la bulimia edonista di ciascun essere umano: è bello, vero, buono solo quel che piace e serve a me. Come se non esistesse nessun altro valore. Come se tutto ciò che c’è intorno a noi, a partire dal nostro prossimo sino ad arrivare alla Terra che ci ospita, fosse esclusivamente un trastullo per compiacere il nostro ego.

Le vedo oggi, affranto, le conseguenze di quella libertà senza freni. I faggi soffrono. Molti di loro sono d’un colore ramato, senza più foglie verdi. Bruciati forse da questo caldo asfissiante di metà maggio o dalla siccità, o da una tardiva gelata capricciosa. L’acqua nei ruscelli è scarsa, le praterie secche e rade, i fiori piccoli e stenti. No, non può essere solo un’eccezionalità stagionale. Temo che si tratti di uno dei tanti, nefasti effetti dei cambiamenti climatici, la vera grande pandemia di questo nuovo secolo. Causata da un virus che si chiama Homo sapiens, il parassita della Terra. Che nessun vaccino potrà mai sconfiggere. Nel Soleo, la prima delle quattro valli che ricameremo oggi con un grande anello, uno di quei parassiti: un pescatore che, incurante dei divieti del parco nazionale, concentrato sul proprio tornaconto, tira fuori dalle magre pozze le trote sopravvissute alla siccità. Appena ci inoltriamo dove il parassita farebbe troppa fatica ad arrivare con la forza delle sue gambe – il tipico parassita umano vuole tutto e subito – il mio struggimento è lenito da un tenero capriolo, che, ignaro, attraversa la valle, superando, con qualche difficoltà la recinzione che corre nel mezzo. Ecco un altro vezzo dei parassiti umani: chiudiamo, recintiamo, isoliamo la terra, illudendoci che nei nostri Fort Apache non possa mai venire a disturbarci nessuno. E invece tutto è connesso, tutto è relazione. Anche la nostra stupidità, che dilaga esattamente come un virus, senza preoccuparsi di barriere, dogane, muri, chiusure, zone rosse. Sbuchiamo alla Latteria. Seguiamo il bordo della seconda valle, quella del Pisarello.

Una grande conca tappezzata di praterie, circondata da rilievi selvosi. Poi aggiriamo sulla destra Cugno di Porrazzo e caliamo in un fitto bosco di faggi. Mille piccoli abeti spuntano dal sottobosco ombroso. Sono i rampolli dell’antica progenie di giganti che Norman Douglas, Lorenzo Agnelli ed altri ebbero la fortuna di vedere quando tutto questo costituiva la più grande foresta primigenia del Sud Italia, il Bosco del Gariglione. Prima che il parassita uomo la radesse al suolo per decenni, costruendovi strade, ferrovie decauville, teleferiche. La Sila non ha eguali. Nessuno dovrebbe potersi ergere a capo della Calabria se non abbia visitato queste valli. Perché solo godendo di tanta bellezza potrà comprendere la sua responsabilità. E il suo privilegio. Atterro sul fondovalle del Tacina, la terza valle. Quella a cui mi lega un amore intimo. Due giovani escursionisti seguono una traccia anonima scaricata da Internet. Vorrei avere il tempo di raccontare loro qualcosa, per evitare che anche il cammino si deformi in pura esperienza estetica. Osservo l’ultima grande valle silana rimasta pressoché intonsa. Poi entro nella quarta, quella del Piciaro. E nella magnanima ombra del bosco attacco la salita per Cugno delle Sette Fontane, Colle del Telegrafo, Valle Lunga.

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