Valle e cascate del Petrone. Pasolini e l’età del pane

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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“Vedi Francesco – Sasà indica un rudere su un piccolo spazio fra le querce, in alto, sulla ripida pendice di fronte – lì c’era la scuola. E lassù, dietro il crinale della montagna c’è un grande piano dove si coltivava il grano.” Silenzio nella valle del Petrone, fra le montagne e le giungle andine della Sila Greca. Resta nell’aria l’eco di voci, diverse da quelle del vento che spira fra gli alberi e dell’acqua che galoppa furente nel suo alveo di pietre. E c’è un gelo che non è solo fuori, ma dentro anche di noi. Per un mondo lontano da qui, dove impazzano, in queste ore, morte e distruzione. Città rase al suolo. Popoli fratelli chiamati dai loro padroni a farsi la guerra. L’intera umanità basita e affranta. Capi di stato che si aizzano gli eserciti e si minacciano come belve idrofobe.

Siamo venuti qui a cercare una tregua, a negoziare un po’ di pace per qualche ora. È un luogo al quale le ansie, le ossessioni degli umani non piacciono. Ci ha visti passare tante volte, nei secoli, anche per far danni. Eppure lui ci ha accolti, scaldati, sfamati. Ci ha cullati e protetti, come dice Heidegger in un suo famoso scritto sull’abitare.

In questa solitudine vivevano, un tempo, decine di famiglie. Nugoli di bambini ruzzavano liberi nell’erba. Carbonai andavano su e giù per i sentieri sconnessi con il loro prezioso carico. “Dai diamanti non nasce niente, dal carbone nasce il tepore”, potremmo dire, parafrasando De Andrè. Potremmo dover tornare davvero a scaldarci con i bracieri della tradizione, se la follia che dilaga nel mondo là fuori non guarisce.

I pastori partivano all’alba col gregge: una sinfonia di campanacci risuonava nella valle. I contadini salivano ai campi col buio e tornavano alla sera: “da buio a buio”. Carichi di legna, e con erbe selvatiche per la povera minestra della sera. La maestra veniva dalla marina, alla domenica, e rimaneva quassù tutta la settimana. La strada carrabile arrivava solo al villaggio di Ortiano, più a valle. Il resto del cammino doveva farlo a piedi, fra i sassi del torrente, attraversandolo più volte sugli instabili ponti di legno costruiti dai pastori: due o tre pertiche gettate tra una sponda e l’altra legate fra loro e sopra delle piatte pietre l’una dietro l’altra. Chissà quali erano le sue emozioni nel penetrare il ventre buio della valle, nel sentir mugghiare il fiume sul greto. E poi vedere quei bimbi laceri e sporchi che le si accalcavano intorno, come fosse una madonna caduta dal cielo.

Il sole, intanto, è venuto ad illuminare il nostro cammino. È salito, sghembo, da dietro le montagne, arrancando nel cielo terso come uno zaffiro. Ma il gelo non si lascia intimorire: s’insinua rapido fra i meandri della valle, da est, e tiene in ostaggio questo mondo perduto. I resti di un ponte e quelli di una casa su un poggio, a sentinella dei transiti. Sentieri pietrosi ostruiti dalle eriche e dalle ginestre. Ciuffi di lecci che s’alternano a radi querceti e a pascoli abbandonati. E pensare che qui c’era vita, c’erano uomini e donne! “È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale – scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1974 su “Paese Sera” in una lettera aperta ad Italo Calvino – […], sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango. Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro […]. Essi vivevano […] l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita”.

Mentre risaliamo la valle, le voci sfumano nel brusio del vento. L’acqua viene giù copiosa dalle montagne. Un piccolo disgelo meridiano è in atto lassù, dove stamattina presto, al nostro passaggio, c’erano meno sette gradi e tanta neve. Guadiamo molte volte il fiume che s’affretta impaziente: c’è il mare, lontano, che l’attende. Ad ogni guado gettiamo pietre nell’acqua per creare passaggi. Sasà e Francesco sono instancabili.  Talvolta ci scoraggiamo, ma loro proseguono imperterriti: non vogliono mancare l’incontro con “La regina”, come l’ha chiamata Francesco. Ed eccola, finalmente, dopo una frana colossale. In questo punto il fiume ha sfondato il meandro. Anziché seguire la curva naturale dell’antico alveo, l’acqua ora erompe furiosa da un incavo nella crestina rocciosa che prima la ostacolava, separando le anse. Due colate parallele precipitano ai lati di una scura punta di roccia, per una ventina di metri, formando una pozza stretta fra le rupi. Poi, l’acqua inqueta tracima dall’orlo della pozza e dilaga sui frantumi sottostanti, come la gradinata di una cattedrale. L’urlo della cascata e l’ululato del vento ci inondano. Al gelo si aggiunge l’umido dell’acqua vaporizzata. A chi dice che il fiume non è intelligente perché non possiede un encefalo, io rispondo: non ha neanche gambe, eppure si muove, viaggia, cammina senza mai fermarsi; non ha corde vocali, eppure intona un canto perenne fra i sassi; non ha polmoni, eppure il suo respiro si riversa su di noi come un vento impetuoso. In questo angolo di Mondo alla fine del mondo, ritroviamo, per qualche ora, quell’età del pane, quell’altra felicità, quell’antica, semplice, ingenua speranza che l’Uomo ci ha, ancora una volta, strappato di mano.  

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