Ferlaino, 50 anni e nessun colpevole. La figlia del giudice ucciso a Lamezia: "Mio padre non era massone. Innato per lui senso giustizia"

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di Antonio Cannone

Lamezia Terme - "Lo hanno voluto fermare, non so dire per che cosa, ma di sicuro per il suo lavoro l'hanno ucciso. La mafia l'ha voluto fermare. Anche perché mio padre faceva processi importanti e dopo cinquant'anni non si sa nulla, non si conosce la verità". A parlare così, in esclusiva al nostro giornale, è Rosetta Ferlaino, una dei figli ancora in vita del giudice Francesco Ferlaino.

Sono passati cinquant'anni dal primo omicidio di un giudice in Calabria. Ricorre fra pochi giorni, infatti, quell'incredibile assassinio che sconvolse un'intera regione. Era il 3 luglio 1975, una delle strade principali di Lamezia, corso Nicotera, si colorò di sangue. Francesco Ferlaino, 61 anni, avvocato generale dello Stato presso la procura generale della Repubblica di Catanzaro, si infila nella Fiat 124 di servizio guidata dall’appuntato dei carabinieri, Felice Caruso per tornare a casa a Lamezia, quartiere est Nicastro. Alle 13.30, l’auto si ferma nei pressi dell’abitazione di Ferlaino. Il magistrato scende e percorre i pochi metri che lo separavano da casa. Da via Sele, traversa che si immette sul corso, arriva un’Alfa di colore amaranto. Dal finestrino posteriore dell’automobile un killer esplode due scariche di lupara alla schiena di Ferlaino. Il magistrato cade riverso sul marciapiede e cesserà di vivere poco dopo il suo arrivo all’ospedale lametino. L’appuntato Caruso esce dall’auto, estrae dalla fondina la Beretta d’ordinanza ma la vettura degli attentatori si allontana prima che egli riesca a sparare. L’Alfa sarà ritrovata il giorno dopo dalla parte opposta della Calabria, a Copanello, nota località turistica. È una vettura rubata ad un avvocato di Catanzaro. Il commando formato da due o tre persone agì a volto scoperto. Evidente che gli assassini giunsero da fuori Lamezia.  Il ricordo dei familiari è sempre vivo. Celebrazioni a parte, l'anziana figlia Rosetta, tra intimità e ricordi legati al lavoro dell'amato genitore, non disdegna di lanciare qualche frecciata polemica.

Torniamo a quel 3 luglio di cinquant'anni fa. Come apprese la notizia?

“Ero al mare. Mi dissero, Rosetta vieni che è successo una cosa grave a tuo padre. Mi hanno portato qua, per cui io l'ho visto. L'ho visto morto”.

Andaste in ospedale?

“No. Sono arrivata a casa. Era a casa, l'avevano portato dopo. Ma che cosa dovevamo dire? Quel giorno io ero al mare e lui se ne ritornava da Catanzaro e l’hanno sparato proprio davanti a casa. L'hanno portato all'ospedale ma praticamente è andato a morire poi lì. Io l'ho visto dopo a casa".

Che idea si è fatta? Che idea vi siete fatti voi figli? Allora come oggi nessun colpevole. Perché lo hanno ucciso? Lui indagava sui sequestri a Lamezia e aveva presieduto il processo a Catanzaro contro la mafia palermitana responsabile della strage di Ciaculli. Probabilmente sono stati questi i motivi alla base del suo assassinio?

“Era il suo lavoro. L'hanno voluto fermare, non so dire per che cosa esattamente, ma quelli erano fatti scatenanti. Per il suo lavoro l'hanno ucciso. Mio marito (Gregorio Greco, già presidente del Tribunale di Catanzaro, ndr) era attaccatissimo a mio padre, infatti, ne ha fatto una malattia per la morte sua. Mio marito non si meravigliava perché quando fanno le cose, se le studiano bene mi diceva…”.

Qual era il pensiero di suo marito?

“Che la mafia l'ha voluto fermare. Anche perché mio padre faceva processi importanti e dopo 50 anni non si sa nulla, non si conosce la verità. Lui è il primo magistrato ucciso in Calabria e non riusciamo a sapere dopo tanto tempo chi è stato ad ucciderlo”.

Signora Rosetta, conserva tanti ricordi di suo padre. Se dovessimo fare una sintesi?

“È stato un padre molto presente, capace di aiutare i figli in tutte le varie circostanze della vita. Ci ha sempre indirizzati al compimento del proprio dovere, alla solidarietà e al rispetto per gli altri. Era un grande lavoratore, si alzava alle 4 del mattino per studiare e redigere sentenze. Conosceva a perfezione i classici, ed era capace di tradurre un brano dal latino al greco e viceversa. Era un grande oratore. Spesso veniva invitato a tenere conferenze di carattere giuridico, religioso, morale. Amava la musica classica e sinfonica. Era molto religioso. Ogni mattina andava a messa ed era molto devoto alla Madonna. Spesso recitava le poesie dialettali di Butera…”.

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Una vita intensa, segnata da tanta responsabilità e sacrifici fin dall'infanzia.

“Mio padre rimase orfano a 4 anni. Il padre e la madre morirono a causa della spagnola e i figli rimasero con una sorella più grande che doveva partire, si doveva fare monaca, zia Angelina. Telefonò all'istituto dove doveva andare, e le dissero: e tu come ti puoi fare monaca se sei rimasta con questi bambini da accudire? Fatti monaca di casa, e accudisci questi fratelli. E lei così fece? Veramente ha fatto la monaca di casa. Allevò questa enorme famiglia; lei aveva zio Modesto che studiava a Napoli, ingegnere e papà di Corrado (ex presidente del Napoli calcio, ndr) e questi parenti sono stati davvero importanti, bravi e legati. Anche Corrado era legatissimo a noi, a papà. Corrado mi ha sempre telefonato che voleva venire a Conflenti alla nostra vecchia casa che ho ristrutturato e donato alla Diocesi. Ma come? Mi diceva Corrado. E se vengo a Conflenti dove vado? Ma poi la verità e che non scendeva mai giù. Ma siamo stati sempre legati. Soprattutto con mio padre. Pensi che mio padre era tifoso del Napoli e della Vigor Lamezia. Io sono sempre stata juventina. Allora dicevo a Corrado, posso venire con papà a vedere la Juve? E lui, ma certo. E ci preparava i biglietti per entrare. Sono andata due o tre volte…”.

E la passione per la Vigor?

“E sì, anche quella era la sua passione. Oltre al Napoli, andava sempre al campo a vedere le partite della Vigor perché, insomma, siamo nati a Conflenti ma da piccola a 4 anni ero già a Lamezia e ci sentiamo tutti lametini oltre che conflentesi. E lui, mio padre, non si perdeva una partita della Vigor che amava tanto. Era un tifoso accanito. Era tifoso della Vigor, e poi naturalmente del Napoli. Io sono sempre stata juventina”. (La signora Rosetta ha una pausa e fa per sorridere). “E questa è una bella cosa, vero? Uno non può cambiare da un momento all'altro…”. (Sorride ancora).

Il procuratore Gratteri a proposito di suo padre ha detto che, da quello che risulta, fu ucciso perché si opponeva all’ingresso della ‘ndrangheta nella massoneria. Le risulta? Suo padre era nella massoneria?

“Possono dire quello che vogliono. Mio padre era dove? In una specie di setta? Gratteri non so di cosa parla, di cosa ha parlato. E se ha detto questo non sapeva quello che diceva. Dacché se ne è andato a Napoli si è calmato. Io dico - ma questo è un discorso in generale che faccio - che la magistratura stessa non è come ai tempi di mio padre. È politicizzata, adesso ci sono le correnti, all'epoca non c'erano, non si capisce più niente. Quindi sì, poi si sono dette pure cose che ci hanno fatto molto soffrire. Le calunnie sono cominciate perché ci sono sempre stati invidiosi di mio padre. Gli chiedevano in continuazione qualcosa, qualche favore e non lo lasciavano in santa pace. Gli chiedevano piaceri. E mio padre non li poteva accontentare. Mio padre era solo religiosissimo, faceva attività sociali per gli altri".

Suo padre aiutava la povera gente. I bambini degli amici suoi li aiutava a studiare. Teneva lezioni senza farsi pagare…

“Si. Lo faceva per una sua passione e il suo profondo senso religioso. Faceva scuola a molti ragazzi che magari durante l’estate erano ripetenti e dovevano studiare senza mai farsi pagare. Lo faceva perché gli piaceva farlo, senza prendere soldi”.

Si ricorda quando la interrogarono? Quando sentirono voi parenti stretti?

“Sono naturalmente quelle cose che fanno male. Quando è morto mio padre il giudice di Napoli, il magistrato, insomma l’inquirente, fu di una freddezza unica. Eppure sapevano che anche io ero moglie di un magistrato. Quando mi dice, signora, ditemi la banca dove si serviva vostro padre. Risposi, la banca? E dico, che banca? Che banca? Mio padre solo debiti ha lasciato. Allora chiesero, come debiti? E io dico, scusate, voi siete magistrati, sapete chi è mio padre. Padre di cinque figli con tre che ancora studiavano”.

Alludevano a qualcosa che potesse “transitare” sul conto corrente di suo padre?

“Mio padre non aveva proprio niente. Niente, niente. A malapena riusciva a mantenere mia mamma che non lavorava e aveva ancora i tre figli a carico. Viveva dello stipendio del suo lavoro. Loro chissà che si pensavano. Veda che cosa io ho dovuto ascoltare nella mia vita? La verità vera è che dopo 50 anni non si sa cosa è accaduto e chi siano i colpevoli. Ci sono state quelle assoluzioni di quei due, ma nulla più è stato fatto".

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I sospetti e le assoluzioni

Per la cronaca, è giusto ricordare in sintesi la vicenda giudiziaria e le assoluzioni alle quali la signora Rosetta fa riferimento. A pochi mesi dall’omicidio iniziarono a circolare le prime ipotesi. Si parlò di Pino Scriva, trentenne bandito di Rosarno, detenuto nelle carceri e di Antonio Scopelliti. Scriva era evaso dal carcere di Civitavecchia e pare si nascondesse in Aspromonte. Le poche indicazioni raccolte sui tratti somatici del killer di Ferlaino sarebbero coincise con i lineamenti di Scriva. A privilegiare questa pista furono soprattutto i carabinieri, che avrebbero raccolto dai compagni di cella le sue intenzioni di vendicarsi del magistrato che si opponeva a trasferire Scriva da Civitavecchia in un carcere calabrese. Mentre la polizia batteva all’epoca la pista di Scopelliti, anche lui latitante ed evaso e implicato in un sequestro di persona di cui si occupò Ferlaino. Un anno dopo veniva invece emanato un ordine di cattura nei confronti di Pino Scriva e del capo cosca, Antonio Giacobbe, temutissimo boss mafioso di Borgia, già rinviato a giudizio dal giudice istruttore di Novara per il rapimento e l’uccisione di Cristina Mazzotti, presunto mandante dell’azione omicidiaria di corso Nicotera a Lamezia. Nel 1978 il quadro si ampliava. Venivano considerati esecutori sia Scriva che Scopelliti che nel frattempo era morto in carcere. Uno avrebbe sparato, mentre l’altro avrebbe guidato l’auto. Nella sua sentenza di rinvio a giudizio il giudice individuava la causa del delitto nella lotta condotta da Ferlaino contro la ‘ndrangheta. In una perquisizione in casa di Giacobbe sarebbe stato trovato un foglio sul quale erano scritti nome e cognome di Francesco Ferlaino, colpevole di avere chiesto l’adozione contro il boss di misure di prevenzione antimafia. Ma nel 1980 gli imputati, Antonino Giacobbe e Giuseppe Scriva furono assolti per insufficienza di prove. La decisione fu della Corte d'Assise di Napoli. Ad oggi, quello di Ferlaino rimane uno dei tanti casi irrisolti d’Italia.

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