Lamezia Terme - Una vita come viaggio, come storia, testimonianza e racconto estremo: è quella di Gian Micalessin, reporter di guerra, che da 40 anni gira il mondo per documentare con immagini, filmati e parole l’assurdità dei conflitti che insanguinano il mondo. Autore di reportage per Il Giornale, La Repubblica, Il Corriere della Sera, Panorama, El Mundo, è arrivato a raccontare finora almeno 40 conflitti. Tutto comincia nel 1983, quando con due amici e conterranei, Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo, parte per l’Afganistan occupato dai russi. I tre sono cresciuti a Trieste, sono figli d’Italiani sfollati dall’Istria e dalla Dalmazia che ricordano ancora l’occupazione dei partigiani di Tito, e hanno vissuto la loro infanzia con l’incubo di un’invasione da parte dell’Armata Rossa.
“Portavamo fiori sulle Foibe”, ricorda Micalessin, “che allora erano solo buchi neri circondati da filo spinato, di cui nessuno voleva parlare. All’inizio sul lavoro abbiamo pagato lo stigma di non essere di sinistra, ma eravamo bravi, e in qualche modo ce l’abbiamo fatta”. I tre si fanno spazio in un mondo dove fare giornalismo, e fare reportage di guerra, è totalmente diverso rispetto al presente. “Partivamo con due zaini pieni di bobine e rullini, che dovevamo portare a spalla per chilometri, e solo una volta tornati a casa sapevamo realmente cosa eravamo riusciti a filmare e quali immagini avevamo. In pratica, lo sapevamo due mesi dopo. Ma andava bene, perché allora non c’era altro materiale in circolazione. Oggi, una foto, se passa un solo giorno, è già vecchia”.
In Afganistan, Micalessin perde dieci chili, cammina anche per nove chilometri al giorno, prende la dissenteria, parenti e amici perdono completamente le sue tracce per mesi. Ma il reportage viene comprato dalla CBS per 25 milioni dell’epoca, e i tre amici riescono a fondare la Albatros Press Agency, un marchio con il quale continuano a girare il mondo, partendo anche separatamente, per raccontare guerre dimenticate: dalla Birmania alla Cambogia, dall’Iraq all’Armenia, dalla Siria alla ex Jugoslavia, sfidando anche l’epidemia d’Ebola in Africa, fino al recente viaggio in Ucraina.
Ma nel frattempo, il 19 maggio del 1987, dopo soli quattro anni dall’inizio dell’attività, il leader del gruppo, Almerigo Grilz, giovane dal coraggio inusitato, viene colpito alla nuca da una pallottola filmando, di spalle al nemico, un’operazione di ritirata in Mozambico. “Ci dissero che era stato sepolto sotto un grande albero in mezzo alla giungla, ma solo nel 2001 siamo riusciti realmente ad identificare il luogo preciso, dove siamo stati a girare un filmato per ricordarlo”, racconta Micalessin, “Non l’abbiamo portato via da lì: aveva sempre detto che se fosse stato ucciso sul lavoro, voleva rimanere dov’era, non finire seppellito al Sant’Anna, il cimitero di Trieste, che considerava un luogo di provincia”. Dedicato alla memoria Grilz e alla sua figura di fotoreporter, spesso completamente dimenticata dai media, l’incontro organizzato in sala Prunia da Cantiere Laboratoriale – Gioventù Controcorrente – Unità Operativa di Solidarietà, introdotto dai saluti di Bruno Spatara e presentato dal presidente Vittorio Gigliotti. “Non siamo portatori di verità, ma possiamo raccontare i fatti”, ha concluso Micalessin, ricordando l’ipocrisia delle “Missioni di pace”, la necessità di raccontare punti di vista diversi, e spiegando che “il primo caduto di ogni guerra è proprio la verità”.
Giulia De Sensi
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