
Lamezia Terme - “Ecco il grande mistero del sacerdozio: dare ad altri quello che noi abbiamo ricevuto e, spero, gustato per primi. Vi auguro allora questo: di poter essere uomini di comunione, mettendo insieme l'urlo, magari sprezzante, dell'umanità e il grido della speranza dell'uomo. E voi in mezzo, noi in mezzo, su quella croce, trafitti, che, proprio attraverso le ferite, riusciamo a dire che Dio regna così: non imponendosi, ma donandosi. Ve lo auguro di cuore”. Con queste parole il Vescovo, monsignor Serafino Parisi, ha concluso l’omelia della Santa Messa presieduta in Cattedrale per l’ordinazione presbiterale di don Giuseppe Bernardini (parrocchia Santa Maria Goretti) e don Andrea Giovanni Cefalà (parrocchia Maria S.S. delle Grazie).

“La parola di Dio di questa domenica che chiude l'anno liturgico con la solennità di Cristo Re dell'Universo – ha aggiunto monsignor Parisi - ci dà la possibilità di percorrere un itinerario che non vuole descrivere l'essenza, la scelta, la vita del sacerdote, ma ci offre degli spunti di riflessione che sono validi per tutti noi e che, in modo particolare, si rivolgono al cuore, ma anche alla mente, alla persona di questi due nostri fratelli, Andrea Giovanni e Giuseppe, che questa sera consacrano come sacerdoti la loro vita al Signore e alla Chiesa, dentro la Chiesa. L’elezione che sperimentiamo tutti quanti noi che abbiamo già qualche annetto di sacerdozio non è per le nostre qualità, per le nostre doti, per la nostra intraprendenza. La scelta è unicamente per grazia di Dio. Quindi, celebrare questo primato della grazia vuol dire ridimensionare non solo l'ambito del nostro intervento all'interno della storia della salvezza, del prolungamento della Parola che salva. Ma dà la possibilità di ridimensionare anche la nostra stessa esistenza perché noi siamo consacrati e voi due sarete consacrati unitamente perché guardati e voluti e scelti da Dio. E questo è il primo passaggio che le letture di questa sera ci fanno fare guardando alla figura di Davide”.

“Noi – ha proseguito il Vescovo - non siamo sopra la comunità, forse non siamo nemmeno sotto. Ma la cosa più difficile è stare dentro la comunità. Ed ecco perché questa dimensione che la Parola di Dio ci suggerisce questa sera diventa un indicativo per l'interpretazione della nostra vita. È una vita, cioè, che ci dà senso, ci conferisce senso, soltanto se ci collochiamo e riusciamo a restare ossa e carne delle stesse persone che con noi fanno la stessa comunità e condividono la stessa storia. Nella prima lettura di questa sera, poi, c'è un’altra indicazione che è importantissima, fondativa, determinante, per tutti noi che condividiamo il sacerdozio ed è la frase che il Signore rivolge a Davide. Quando sentiamo dire ‘il Signore ti ha detto tu pascerai il mio popolo d'Israele e tu sarai capo di Israele’, c’è un contrasto di significato logico perché noi normalmente interpretiamo il capo come colui che comanda, che ha potere e questo potere lo deve manifestare, esercitare, costi quel che costi. Ma, nel testo di questa sera, non è così. Ed in modo particolare non è così nella seconda lettura che abbiamo ascoltato e non è così nel brano del Vangelo che è stato proclamato: essere capo, deve essere messo in relazione con l'espressione che precede la missione di essere capo di Israele ed è ‘tu pascolerai il mio popolo’, dice il Signore. Il popolo non è nostro, il popolo è del Signore. E lo dice in modo molto chiaro. Allora, se il popolo è del Signore, tu pascerai il mio popolo. Che cosa vuol dire, allora, essere capo? Vuol dire che dentro quel popolo tu, come pastore, dovrai manifestare la stessa cura. Pensate qual è la sproporzione insita nella missione: la debolezza nostra e la potenza di Dio; il tesoro - se vogliamo dirlo con le parole di Paolo - nei vasi di creta. La sproporzione è che capo significa manifestare dentro quel popolo. Ed ecco il verbo pascere: la stessa cura che il Signore ha per il popolo di Israele, la stessa tenerezza, la stessa premura, la stessa passione, lo stesso amore. Questa è la consegna”.
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