I familiari della giovane uccisa a Lamezia nel 2011: "Adele come Giulia e quel dolore che non va più via"

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Lamezia Terme - Dodici anni di dolore discreto, fuori dal clamore dei talk e dal taglio delle inquadrature. Dodici anni con un peso sul cuore che quasi impedisce di parlare, ma senza mai dimenticare un solo attimo della tragedia vissuta, e della perdita che ha comportato, che riaffiora indelebile ad ogni nuovo episodio di cronaca. Decidono così di rompere il silenzio Patrizia, Lidia e la giovane Antonella, le zie paterne e la cugina più legata – nella vita e ancora dopo – ad Adele Bruno, vittima lametina di un efferato femminicidio, il cui corpo senza vita viene ritrovato in un uliveto il 20 ottobre 2011, dopo la barbara esecuzione compiuta dal ragazzo che diceva di amarla.  Sono tanti, davvero troppi, i punti in comune fra l’omicidio di Adele e quello recentissimo della veneta Giulia Cecchettin: l’appuntamento usato come trappola, l’arma, l’intenzione già manifestata da parte della vittima di interrompere la relazione, la mancata accettazione da parte dell’aggressore e l’utilizzo del proprio malessere come esca per la vendetta finale, la speranza dei familiari di ritrovare viva la ragazza fino all’ultimo. Un copione che si ripete identico a sé stesso, tanto da provocare rabbia: anche Adele era molto giovane, e anche lei era una ragazza del tutto normale, che conduceva una vita tranquilla, e che quell’esito proprio non se lo aspettava, forse ancor meno di Giulia. Perché la storia ritorna?

“Perché evidentemente in tanti anni non è cambiato nulla - risponde Antonella - servono leggi più severe, bisogna togliere le attenuanti – che in questi casi non ci sono –, gli sconti di pena, impedire a chi si macchia di questi reati di uscire prima del tempo, come se niente fosse, dopo aver impedito per sempre ad una persona innocente di vivere la felicità che meritava. La mobilitazione civile è utile, e servono le iniziative antiviolenza nelle scuole, ma devono essere curriculari, obbligatorie per tutti, perché altrimenti si rischia di coinvolgere solo persone già aperte, sensibili al problema, mentre i figli e le figlie del patriarcato vivono come prigionieri di una bolla”. La stessa bolla nella quale il fidanzato di Adele voleva rinchiuderla, prima di essere lasciato. “L’aveva allontanata da tutti”, racconta ancora Antonella, “le aveva fatto il deserto attorno: solo con me non c’era riuscito. Non era mai stato violento, e la copriva di regali, ma era molto possessivo. A me sinceramente non piaceva, e comunque non era mai veramente voluto entrare in famiglia. Il primo segnale reale di squilibrio lo ha dato quando lei ha deciso di lasciarlo: “Se lo fai mi ammazzo”, aveva detto. Due giorni prima di ucciderla era venuto a parlare con me: voleva portarmi dalla sua parte perché sapeva del mio rapporto privilegiato con lei”.

Un rapporto intimo che rendeva Adele e Antonella “come sorelle”: l’una accompagnava l’altra all’Università, e “ci si fermava lungo la strada, sulle spiagge del litorale, a fare capriole sulla sabbia e a scrivere le nostre iniziali sul bagnasciuga. Eravamo inseparabili, eppure diverse: io ero quasi un maschiaccio, a lei piaceva abbinare i colori degli abiti, delle fasce, delle scarpe: si colorava le unghie di un colore diverso a seconda di com’era vestita. L’abito che avrei indossato al mio matrimonio l’abbiamo scelto insieme: era molto romantica e anche lei sognava un giorno l’abito bianco”. Anche il pomeriggio della sua scomparsa, Antonella aveva aiutato Adele a scegliere l’abito per il diciottesimo compleanno di un altro dei loro cugini, cui avrebbe dovuto partecipare quella sera stessa – “siamo una famiglia molto unita” – e ad abbinarlo con gli accessori. “Ѐ stato il suo ultimo abito, gliel’ho preparato io stessa”, spiega Antonella fra le lacrime, “perché a quel compleanno non è mai venuta, ed era giusto che comunque lo indossasse”.

Adele aveva un grande cuore – “dopo averlo lasciato, mi disse che le dispiaceva molto per il suo ragazzo”, racconta la zia Patrizia, e “non riusciva a vedere il male dentro a nessuno”, spiega la zia Lidia. Oggi la sua memoria viene rinnovata con numerose iniziative su tutto il territorio dall’Associazione “Per Te”, voluta da Katia Nero, che ne è presidente nonché membro del Comitato Pari Opportunità del Comune di Lamezia Terme. “La nostra realtà sostiene le donne vittima di violenza di genere - spiega - con il supporto di uno staff qualificato composto da quattro avvocati, quattro psicologi, uno psicopedagogista, un assistente sociale, un operatore sociosanitario, ed io in qualità di criminologa. Abbiamo 55 soci, dieci dei quali sono volontari attivi e di questi tre sono operatori delle Forze dell’Ordine. Oltre a gestire lo sportello aperto presso la Canonica della Chiesa del Carmine di Sambiase, organizziamo frequentissime iniziative di sensibilizzazione: ultimamente una fiaccolata antiviolenza a Marcellinara, l’incontro con i ragazzi delle elementari e medie a San Pietro a Maida, la partita amichevole 'Un calcio alla violenza' al Palasparti, e un incontro con i giocatori di basket della 'Cestistica Lamezia' per far conoscere ai ragazzi le tematiche della violenza di genere, anche in un ambiente che è prevalentemente maschile. Non in un ultimo, la nostra partecipazione al Consiglio Comunale aperto del 27 novembre, durante il quale oltre a ricordare Adele, abbiamo manifestato la volontà di creare una casa rifugio comunale per le vittime di violenza, gestita dalle associazioni, che speriamo si possa presto realizzare, anche con il supporto della Diocesi”.

Giulia De Sensi

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