Intervista a Fabrizio Mariotti: “Vi racconto i miei sette mesi e sette giorni sotto sequestro a Lamezia”

fabrizio_mariotti_1983.jpgLa foto di Fabrizio Mariotti subito dopo il rilascio.

di Claudia Strangis.

Lamezia Terme - Tra le tante pagine di cronaca nera che hanno contraddistinto la città di Lamezia, c’è anche quella dei sequestri e tra questi, spicca quello di un ragazzo di 23 anni, Fabrizio Mariotti, figlio di un noto imprenditore del marmo. Fu rapito il 31 gennaio 1983 a Bagni di Tivoli, dove viveva con i suoi genitori. Una sera, dopo essere stato speronato con la sua auto mentre stava facendo ritorno a casa, fu rapito da alcuni personaggi della malavita lametina, probabilmente aiutati da basisti della zona, anche se questa supposizione non è mai stata confermata. I lametini erano quelli del clan Cerra-Torcasio. La famiglia, con base a Capizzaglie, aveva intrapreso, tra le altre cose, anche questo tipo di attività criminale. In particolare Nino Cerra si era inserito nel giro dei sequestri di persona: proprio tre anni prima di Mariotti si ritiene avesse avuto un coinvolgimento anche in un altro sequestro in Lombardia. Nel 1983 era, infatti, latitante, ed era considerato vicino agli ambienti della malavita reggina, in particolare di Platì. A 33 anni dal suo rapimento, con la lucidità di un uomo che ha alle spalle questo tipo di esperienza ma anche con un pizzico di ironia, Fabrizio Mariotti, oggi che è a capo dell’azienda, racconta quell’esperienza, che sì l’ha segnato ma, come ha sottolineato, l’ha reso più forte.

Quanto tempo passò sotto sequestro?

“Sette e mesi e sette giorni di prigionia e, ci tengo a sottolinearlo, perché anche quelli contano. Per contare quanto tempo passavo lì, mangiavo un’unghia al giorno, fino ad arrivare a dieci. Al decimo giorno la fila ricominciava, così sapevo quanto tempo fosse passato. Non ho perso un giorno e, le dirò, non è stato facile. Il turno di veglia e di sonno, infatti, stando in quelle condizioni, era completamente sfasato. Per un periodo ho cominciato a dormire di giorno e stare sveglio di notte, non che cambiasse molto la situazione. I miei sequestratori non mi dicevano mai che giorno fosse. Un giorno dissi: “Buona Pasqua”, loro rimasero stupiti che lo sapessi e mi hanno chiesto come avessi fatto. Ho spiegato loro che contavo i giorni e volevano proibirmelo. Ma come avrebbero potuto? Almeno questo non avevano possibilità di impedirmelo”.

Come si svolgevano le sue giornate, come passava il tempo?

“Praticamente sono stato incatenato ad un letto per tutto questo tempo, con un cappuccio in testa e non potevo né vedere né sentire, anzi, spesso e volentieri, direi quasi sempre, avevo delle cuffie per non sentire, legate intorno alla testa con lo scotch ed ero incatenato mani e piedi. La mia realtà era tutta interna, salvo poche volte che mi toglievano queste cuffie per permettermi di pulirmi. I primi giorni sono stati sicuramente di shock vero e proprio: tremavo, non stavo fermo e ho capito cosa volesse dire effettivamente tremare di paura. Però poi ti abitui e cominci ad elaborare giochini di testa, per passare il tempo, per non diventare scemo. Ho creato delle poesie. Non si trattava tanto di ingannare il tempo, quanto di tenere la mente allenata. Era un’evasione da una parte e un modo per non impazzire dall’altra”.

Quindi poi è riuscito a sfruttare quei pochi momenti in cui aveva la possibilità di vedere e sentire?

“Fondamentalmente sono riuscito a focalizzare pochi e determinati punti che si sono dimostrati fondamentali per riconoscere la casa. Loro, (i suoi carcerieri, ndr), soprattutto nel primo periodo, mi toglievano queste cuffie. Quando succedeva e ne avevo la possibilità, sentivo, soprattutto di mattina, 52 rintocchi di una campana di una chiesa, che poi ho capito essere chiaramente un disco. E questo, ad esempio, è stato uno degli elementi fondamentali per il ritrovamento della casa. Il secondo fu, invece, una pubblicità radiofonica di un negozio a Lamezia Terme e lì ho capito che dovevo essere nel lametino o, comunque, nei dintorni perché si trattava di una radio locale. Sentivo tanti rumori dall’esterno e sono riuscito a ricostruire altri particolari che poi sono stati utili agli inquirenti. Mi ricordo che, da una finestra riuscivo a vedere, quando loro non erano nella mia stanza, la luce riflessa dei lampioni sulla strada e quindi sono riuscito a capire dove fossero collocati questi lampioni e com’era la zona fuori. Stando lì dentro per tanto tempo non avevo niente da fare, se non pensare a come fare per ricostruire e capire. E se qualcosa non va, non torna, si ricomincia da capo, perché quello che lì dentro non manca è sicuramente il tempo. Fondamentali gli elementi della chiesa e della radio, che si sono rivelati i riscontri più importanti e quelli che, alla fine, sono serviti di più agli investigatori. Quando ci fu il sopralluogo, parecchio tempo dopo il mio rilascio, furono ritrovati ben 47 riscontri effettivi, cioè cose che io avevo detto prima agli investigatori e che, successivamente, furono ritrovate nella casa. Malgrado tutto questo, in primo grado, furono assolti per insufficienza di prove ma questo è un altro discorso”.

fabrizio_mariotti_2016.jpgUna foto attuale di Fabrizio Mariotti.

Dopo il rilascio (il 6 settembre 1983 con il pagamento del riscatto di 1 miliardo e mezzo di lire, ndr) collaborò con le forze dell’ordine?

“All’inizio, pur sapendo moltissime cose, avevo un po’ di timore. Decisi di chiedere consiglio a mio padre e lui mi disse: “Fai ciò che ritieni più giusto!”. Così, nonostante le minacce subite dai miei carcerieri, parlai. Le indagini erano della Squadra Mobile di Roma, con la quale poi la Polizia lametina (a quei tempi a capo c’era il dirigente Antonino Surace, ndr) ha collaborato. Mesi dopo il rilascio sono venuto a fare il sopralluogo nella casa e già da fuori l’ho riconosciuta perché aveva un adesivo di un gommista alla finestra. “Eccolo lì” ho detto ai poliziotti. Era uno dei famosi riscontri oggettivi di cui parlavo prima. Uno dei problemi che gli inquirenti ebbero nella ricostruzione fu dato dal fatto che, dopo la mia liberazione, il disco della chiesa che io avevo sentito per sette mesi di seguito suonare i 52 rintocchi, si rompesse ed era stato necessario sostituirlo con un altro. Per questo motivo gli inquirenti non erano stati in condizione di trovare la chiesa di cui parlavo. Tanto che, alla fine, mi chiesero se stessi raccontando “stupidaggini” perché, nonostante tutti gli elementi che avevo fornito, loro non riuscissero a trovare questo posto. Alla fine, un poliziotto di Lamezia Terme che viveva lì vicino, dopo tre mesi che la Mobile di Roma stava seguendo il caso e che passò le indagini anche alla polizia lametina, capì che la sua abitazione era proprio vicina a dove ero stato imprigionato per tanto tempo anzi, era proprio di fronte. Se ne accorse perché sentiva le stesse campane, vedeva gli stessi lampioni e sentiva passare lo stesso autobus. Oltre, naturalmente, a tutti i riscontri effettivi di cui avevo già parlato”.

Cosa ha provato a rientrare in quella casa, ancora una volta?

“Era un periodo abbastanza euforico per me dopo questa esperienza. Partecipare alle indagini da una parte era un po’ strano e, allo stesso tempo, una cosa assolutamente nuova. Mi sembrava surreale. Lavoravo a stretto contatto con la Mobile di Roma: erano poliziotti vecchio stampo, capelli lunghi e anche un po’ di spirito goliardico ma molto, molto professionali ed efficienti. Lavoravano per quindici ore al giorno, non mollavano assolutamente, anche grazie alla dottoressa Cordova, che era di grande stimolo (il magistrato titolare delle indagini, ndr). Era una calabrese tosta, una di quelle che voleva salvare la Calabria da questo scempio. Ebbi contatti anche con un ispettore lametino che, venticinque anni dopo venne a casa a trovarmi e la cosa mi fece molto piacere perché era una di quelle persone con le quali avevo passato la mia prima notte da libero. Poi ho un bellissimo ricordo di un altro poliziotto, che mi seguì passo, passo in quel periodo di indagini. Era il sovrintendente Salvatore Aversa. Mi ricordo che, quando ho saputo della sua uccisione, rimasi veramente colpito. Un episodio bruttissimo, anche perché oltre all’omicidio, se non sbaglio, profanarono la sua tomba. Aversa fu molto attento alla mia situazione, sia la sera che passai al commissariato, quando mi chiese se volessi stendermi sul letto ma io, che avevo passato sette mesi in un letto, gli risposi che preferivo parlare con qualcuno, sia successivamente, nel corso delle indagini. Me lo ricordo ancora questo personaggio, perché era una persona molto determinata, di polso. Anche quando tornai, ho il ricordo di lui che collaborava attivamente alle indagini. Mi aveva colpito molto la sua determinazione. Si vedeva che aveva un qualcosa in più”.

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