Catanzaro – Si chiude con una condanna a 30 anni di reclusione per Domenico Antonio Cannizzaro, il processo per l’omicidio di Gennaro Ventura, fotografo di Lamezia con un passato da carabiniere, ucciso a Lamezia Terme il 16 dicembre del 1996. La sentenza di condanna per l’unico imputato, il 50enne e considerato affiliato alla cosca omonima di 'ndrangheta lametina, indicato come mandante del delitto, è arrivata nel tardo pomeriggio di oggi, dopo che, nel corso dell’udienza, si erano tenute le discussioni dei difensori di Cannizzaro, gli avvocati Lucio Canzoniere e Salvatore Staiano. Il processo, a Catanzaro era cominciato il 20 dicembre scorso ed è stato celebrato secondo il rito abbreviato condizionato all’udizione di due testimoni: erano stati sentiti, infatti, nel corso delle udienze, sia l’ex moglie e il cognato di Pietro Paolo Stranges, ora collaboratore di giustizia, che aveva indicato loro due come sue fonti di conoscenza su questo omicidio. Se Cannizzaro è stato ritenuto il mandante dell’omicidio di Gennaro Ventura, Gennaro Pulice, ora collaboratore di giustizia, si è autoaccusato di essere l’autore materiale: il processo per lui si è concluso recentemente in primo grado con una condanna a dieci anni di reclusione.
Nel processo si è costituita parte civile la famiglia del fotografo, ucciso 20 anni fa: il fratello, la sorella e i genitori di Ventura sono rappresentati dall’avvocato Italo Reale, per loro è stato rinosciuto il diritto al risarcimento da stabilirsi in sede di Tribunale Civile.
Per quasi vent’anni la scomparsa di Gennaro Ventura è rimasta avvolta nel mistero. Era il 16 dicembre del 1996 quando il giovane fotografo lametino scomparve. Da allora i familiari non si diedero pace e continuarono nelle ricerche ma la triste scoperta si ebbe solo nel 2008. In un casolare, che si trova in una zona di campagna in contrada Carrà Cosentino a Lamezia, una siognora stava per cquistare un fondo e chiese una ispezione. Fu proprio nel corso di questa ispezione che, fortuitamente, in una fossa per la fermentazione del mosto furono trovati alcuni resti. Solo con l’esame del dna si ebbe la conferma che quei resti, a dodici anni dalla scomparsa, potessero appartenere a Gennaro Ventura. La svolta nelle indagini, però, si ebbe solo nel giugno dello scorso anno, a vent’anni, appunto da quel triste omicidio. Il killer, colui che materialmente colpì mortalmente Ventura, ossia Gennaro Pulice, confessò agli inquirenti, nel corso delle sue dichiarazioni in veste di collaboratore di giustizia, come andarono i fatti. Gennaro Ventura, era diventato fotografo dopo aver avuto un passato da carabiniere. E sarebbe stato proprio un episodio del suo passato ad essere il movente della sua uccisione. Il suo fu definito un omicidio per vendetta, “perché aveva svolto il suo dovere”. Il mandante, Domenico Antonio Cannizzaro: durante gli anni di servizio come carabiniere a Tivoli, aveva identificato Raffaele Rao come uno dei responsabili di una rapina ai danni di un consulente tecnico dell’A.G. che custodiva un ingente quantitativo di sostanze stupefacenti nella sua abitazione. Droga sottratta da due persone che Ventura, per caso, aveva visto scendere dall’abitazione del perito. Rao, che per questo reato fu condannato a dieci anni di carcere, è legato da rapporti di parentela con i Cannizzaro. Un arresto, quello di un parente, che Cannizzaro non ritenne giusto e così decise di punire l’ex carabiniere. Attirato con la scusa di un servizio fotografico, Ventura fu ucciso da Pulice e il suo corpo fatto sparire.
C.S.
© RIPRODUZIONE RISERVATA