Lamezia Terme - Viviamo nello spazio, ci muoviamo nei luoghi. I luoghi, abitati, trasformati, plasmati, usurati nel tempo dagli uomini e dalle donne delimitano lo spazio nel quale ci muoviamo, gli danno forma, e senso. I luoghi non sono fuori da noi. I luoghi siamo noi. La percezione di sé stessi non si dà in astratto, ma nel rapporto con il proprio ambiente. Come sarebbe possibile immaginarsi nel vuoto? Il nostro pensare, sentire, conoscere non possono che variare di luogo in luogo. E a loro volta i luoghi nascono e si definiscono in rapporto a chi vi sia ambienta. Abitare un luogo non è solo starci dentro, ma percepire che è fatto della nostra stessa sostanza. Vivere pienamente un luogo significa porsi in ascolto della sua specificità, e dunque della specificità della cultura collettiva che lo ha generato e trasformato. Significa mettersi in connessione con generazioni di abitatori prima di noi che ci consegnano in eredità spazi formati da continuare a tenere in vita. Viviamo in un'epoca in cui i concetti di Spazio e di Tempo si muovono su una linea vettoriale che guarda solo in avanti con fare accumulativo e predatorio: accelera, spezzando i ciclici equilibri naturali e non sa adagiarsi sulle spalle di una memoria identitaria senza schiacciarla. In virtù di ciò i luoghi smettono di essere soggetti vivi da ascoltare, parte di una connessione con un noi stessi collettivo, ma spazi da sfruttare, da piegare alle esigenze contingenti, o eventualmente da abbandonare. I luoghi si trasformano così in "non luoghi" o sono sostituiti da "non luoghi": luoghi morti che smettono di avere voce e dunque di essere storici e relazionali, ovvero di creare connessioni dell'individuo con se stesso, con la propria storia e con la propria comunità, o luoghi asettici ed esclusivamente "funzionali".
Abitare un luogo, uno spazio esistente o libero, è molto diverso dall'occuparlo o colonizzarlo. Mettersi in ascolto della sapienza dei luoghi è un'operazione più che mai necessaria. Il Teatro Umberto è uno di questi luoghi. Recuperare la sua dimensione di luogo storico, identitario è importante. Restituirlo alla comunità, facendone un luogo di produzione e fruizione di cultura è un pezzetto del rispetto dei luoghi che bisogna imparare a maturare, per valorizzare il territorio e ricominciare ad avere una memoria. Lo spazio in cui sorge il "pidocchietto" ha sempre avuto la vocazione di spazio aperto all'incontro. Originariamente in quell'area sorgeva lo Spedaletto della Chiesa dell'Annunziata che accoglieva i pellegrini diretti a Roma. La cura degli infermi e l'accoglienza dei viandanti è stata mantenuta, fin dai primi del 1500, dall'ordine domenicano su esplicita richiesta del Conte Caracciolo che ha loro concesso la costruzione del convento e la ristrutturazione della Chiesa. La posizione si prestava a questa funzione: era infatti alle porte del paese, luogo di passaggio e di sosta.
Dopo il terremoto del 1638, con la ricostruzione di chiesa e convento i domenicani, oltre che alla cura dei malati, hanno adibito a farmacia e spezieria i locali a sinistra del portone di ingresso del convento. La vicinanza del mercato ha indubbiamente favorito l'acquisizione dei prodotti necessari. Dal 1830, in piena restaurazione, gli spazi dell'attuale teatro sono stati trasformati in oratorio della congregazione del Rosario, fino all'eversione dei beni ecclesiastici dopo l'unità d'Italia, quando la Chiesa di San Domenico e l'annesso convento vennero incamerati dal Comune di Nicastro. Pochi anni dopo, la Congregazione chiese e ottenne la permuta di Chiesa e Oratorio: l'attuale Umberto divenne allora Sala Comunale, e dal 1874 cominciò a sfruttarlo come propria sede, anche senza un contratto chiaro e definito, la Società Operaia di Mutuo Soccorso, la quale ha conservato il diritto di fatto di utilizzare quegli spazi fino al 1962.
Nell'utilizzo della sala-teatro concorreva con la Società Operaia la ditta Grandinetti/Servidone che ottenne dal comune un regolare affitto per uso cinematografico. Nel 1952 la Società Operaia tentò di ottenere l'uso esclusivo dei locali: gli venne concesso per diciannove anni. Nel contratto veniva "contemplato l'obbligo di tenere in funzione il cinema per conto della Società, per non togliere la comodità di spettacolo alla cittadinanza, ormai abituatavi". Queste concessioni vennero revocate tre anni dopo, nel 1956, e la Sala Umberto I venne nuovamente affittata alla ditta Grandinetti. Nella polemica seguita all'episodio, in un foglio della Società Operaia si legge: "un'ovvia considerazione ci porta a rilevare che se la gestione del Cinema fosse passata all'Ente Operaio, anziché permanere in mani private, la popolazione di Nicastro, per varie ragioni che è superfluo specificare, se ne sarebbe avvantaggiata non poco.", il Teatro fu adibito a deposito comunale fino al restauro operato durante la prima giunta del Sindaco Doris Lo Moro.
Studio e ricerca a cura di Fabio Truzzolillo
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