De Grazia (Comitato Difendiamo la Costituzione): “Con il premierato regredisce la democrazia”

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Lamezia Terme - Pubblichiamo di seguito un intervento dell'avvocato Mario De Grazia, a nome del comitato "Difendiamo la Costituzione" sul premierato.

“Il 3 novembre 2023 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge di riforma costituzionale per l’introduzione del cosiddetto “premierato”, attualmente al vaglio della Commissione Affari costituzionali del Senato che sta apportando alcune lievi modifiche al testo originario. Questi gli elementi più significativi:

  • Il capo del Governo sarà eletto a suffragio universale diretto per la durata di cinque anni con diritto di nomina e di revoca dei ministri, venendo così modificato l’attuale articolo 92 della Costituzione, che ne prevede la nomina da parte del Presidente della Repubblica. A differenza di quanto previsto oggi, il capo del Governo dovrà essere per forza un parlamentare. Inoltre, le votazioni del premier e delle Camere avverranno tramite un’unica scheda elettorale.
  • Il Presidente della Repubblica perderà il potere di nomina del premier. Potrà solo, in caso di crisi di governo, nominare il successore che dovrà essere, però, un componente della maggioranza di governo e dovrà impegnarsi a mantenere il programma del premier uscente. Non si potranno avere più di due premier nel corso della stessa legislatura. Se anche al secondo tentativo non si riuscirà ad ottenere la fiducia del Parlamento, il Presidente della Repubblica dovrà sciogliere le Camere.
  • Il Capo dello Stato perderà, inoltre, con la modifica dell’art. 88 della Costituzione, la facoltà di sciogliere anche una sola delle camere.
  • Sarà cancellato il secondo comma dell’art. 59 che prevede la possibilità per il Presidente della Repubblica di nominare senatori a vita. Quelli attualmente in carica manterranno il loro incarico fino alla scadenza del mandato. La carica di senatore a vita sarà mantenuto solo per gli ex Presidenti della Repubblica.
  • Viene previsto un premio di maggioranza per la coalizione da quantificare nella futura legge elettorale (il testo approvato dal Consiglio dei Ministri prevedeva un premio pari al 55% dei seggi in Parlamento), tale da garantire comunque una robusta maggioranza al Governo del Presidente del Consiglio.

Occorre subito ribadire che nessuna delle presunte preoccupazioni ed emergenze politiche (stabilità ed efficienza dei governi, funzionamento della democrazia, maggiore potere al popolo sovrano) poste dall’attuale maggioranza di destra a giustificazione del progetto di modifica costituzionale trova soluzione credibile. Al contrario, nel solco della infausta tradizione della destra illiberale italiana, la proposta di riforma si prefigge di assecondare le nuove caratteristiche dell’autocrazia e perpetuare l’ossessione dell’uomo (o donna) solo al comando.

Un capo indiscusso, la dilatazione dei cui poteri sarà tale da far assumere al suo Governo una posizione di assoluta preminenza all’interno dell’architettura costituzionale, a scapito del Presidente della Repubblica, del Parlamento e degli stessi organi di garanzia. Non è casuale che l’elezione diretta del premier non abbia riscontri, sul piano del diritto comparato, nelle altre democrazie occidentali. Nel programma elettorale della destra era prevista l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, invece il disegno di legge del Governo persegue l’elezione diretta del Presidente del Consiglio: una proposta devastante che oltre a sovvertire l’equilibrio tra i poteri della nostra Repubblica parlamentare e confinare ad un ruolo notarile il Presidente della Repubblica, come appena detto, comprime le funzioni legislativa e di controllo del Parlamento, concentra la funzione di comando nella figura del Presidente del Consiglio, grazie alla previsione di un premio di maggioranza, sulle cui entità e modalità di attribuzione non vi è allo stato alcuna indicazione (nonostante la centralità di questo punto nella nuova architettura istituzionale), essendo la definizione di questi aspetti, a seguito dell’esame in Commissione Affari costituzionali, demandati all’approvazione della legge elettorale.

Per chiunque si occupi di politica ed abbia una minima competenza giuridica, sono facilmente comprensibili le discrasie e le approssimazioni del testo di riforma. Si tratta di un modello rigido, fondato sull’ingenua pretesa di scongiurare, attraverso confusi congegni normativi, le crisi di Governo. Mi riferisco al banale convincimento contenuto nella riforma, in base al quale anche a fronte del fallimento del capo eletto e delle sue capacità di governo, queste continuerebbero provvidenzialmente a vivere, grazie all’assunzione dei poteri di governo da parte di “un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al presidente eletto” e al quale spetta, nel caso di crisi, il compito di operare in sua vece. Trattasi di una riforma demagogica e pericolosa perché, presentandosi come una trasposizione a livello nazionale del sistema elettorale regionale e comunale, asservisce in maniera decisiva il Parlamento al Governo e stravolge la figura e la funzione equilibratrice del Presidente della Repubblica. Con la previsione, poi, dell’elezione contestuale del Presidente del Consiglio e delle Camere, assicura ai candidati e alle liste collegati al primo una vasta maggioranza da quantificare in percentuale nella futura legge elettorale. In un colpo solo si garantirà così ad una minoranza del Paese di conquistare, grazie ad una distorsione elettorale, tanto il Governo quanto il Parlamento. Un’avvisaglia su ciò che ci potrebbe aspettare la si può anche avere dal comportamento istituzionale dell’attuale maggioranza che tende ad occupare ogni spazio di potere e di comunicazione: sottogoverno, informazione, imprese pubbliche, organismi culturali e fondazioni. Mi pare ci sia abbondante materiale per poter constatare, quanto questo governo di destra illiberale ami la Costituzione e le garanzie democratiche in essa contenute! C’è solo da augurarsi che tutto ciò aiuti le forze veramente liberali e progressiste a comprendere chi è l’avversario politico da combattere e quanto sia necessario recuperare un terreno comune per costruire una alternativa credibile in Italia. Nel frattempo, oltre alla dura opposizione alla legge di revisione, occorre pensare a moltiplicare sul territorio nazionale i comitati per il successivo sicuro referendum. 

Autorevoli studiosi di diritto costituzionale – tra i tanti Zegrebelsky, Azzariti, Ainis, Mirabelli, Flick – hanno puntualmente criticato questo pasticciato e contraddittorio progetto di riforma che non ha eguali nelle democrazie occidentali e che è stato considerato un mostro giuridico perché tenta di trasformare la democrazia in un’autocrazia illiberale, stravolgendo l’equilibrio tra poteri e le garanzie di funzionamento delle istituzioni repubblicane per come previsti dalla nostra Carta costituzionale. Mi piace soffermarmi sulla chiave di lettura offerta dal costituzionalista Gaetano Azzariti dell’Università La Sapienza di Roma in un recentissimo articolo: la riforma Meloni è frutto di miopia, punta ad introdurre una democrazia del capo, essa guarda solo agli interessi politici immediati dei partiti al potere e volutamente ignora uno dei fondamentali insegnamenti dei Padri costituenti che dicevano “quando si cambia la Costituzione  bisogna ragionare per principi e non per convenienze e che occorre sempre essere presbiti e non miopi”. La proposta del premierato, definito dalla Meloni la “madre di tutte le riforme” non è altro che il prezzo, la contropartita richiesta da FdI alla Lega per concedere l’autonomia differenziata. Un accordo scellerato tra un partito tradizionalmente accentratore e un altro, la Lega, nato proprio per dividere e frammentare. Un gioco antidemocratico e al ribasso  per gestire il potere e cercare di consolidarlo. Ciò che è in crisi oggi non è il funzionamento delle istituzioni repubblicane, men che meno il ruolo e la figura del Capo dello Stato che in questi difficilissimi anni ha costituito un solido baluardo istituzionale, ma la politica che da molto tempo non riesce ad essere più “la ricerca del bene comune”, mentre è troppo spesso divenuta per molti occasione di ascensore sociale, fabbrica di carriere e di affari, riferimento di corruttele e di organizzazioni mafiose ed é andata sempre più personalizzandosi attorno ad esclusivi riferimenti di potere. Così sono nati, a partire dagli ultimi anni del secolo scorso, soprattutto con Berlusconi, i partiti personali, divenuti comitati elettorali e raccoglitori di consenso a favore del capo “carismatico”.

Il trionfo del personalismo in politica ha fatto crescere a dismisura il potere dei leader, divenuti inamovibili, circondati da cerchi magici, gruppi aziendali e familistici e da possessori di tessere. Ben altre dovrebbero essere le riforme da portare avanti per rispondere al bisogno di stabilità dei governi e per la loro durata lungo l’intera legislatura, per riavvicinare gli elettori al voto e per rilanciare la politica come ricerca del bene comune. Mi riferisco alle riforme che dovrebbero riguardare:

  • l'attuazione dell'art. 49 della Costituzione che obbliga ciascun partito ad adottare il metodo della partecipazione e della democrazia sia nei rapporti con l'esterno che nell'organizzazione del consenso interno;
  • una legge elettorale che superi questo nefasto “porcellum” e permetta la formazione di coalizioni affini e introduca le preferenze per avvicinare l’eletto ai suoi elettori;
  • la formulazione della fiducia costruttiva, per scoraggiare le continue crisi di Governo ed evitare che si possa sfiduciare un governo senza che sia pronta la prospettiva di formarne un altro”.

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