Lamezia, le sale sotterranee della grotta 'Ntonimaria: un tesoro di stalattiti e alabastro

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Lamezia Terme - Bianchissime sale sotterranee coperte di stalagmiti, pavimenti d’alabastro: eravamo sicuri che cose simili si trovassero solo fuori regione, e invece no. Questo tesoro dalle immense potenzialità, all’insaputa dei più, sta proprio all’interno del territorio comunale di Lamezia Terme. Parliamo delle grotte del monte Sant’Elia, scavate dall’acqua in ere geologiche passate, oggetto di leggende popolari e ritrovamenti archeologici risalenti al Neolitico, ma ancora di fatto non completamente esplorate e del tutto inaccessibili ai non addetti ai lavori. Già note agli abitanti del posto, le grotte furono segnalate all’attenzione nazionale degli speleologi dal CAI locale alla fine degli anni ’80, grazie in particolare a Vittorio Luzzo e Francesco Bevilacqua, e successivamente esplorate e descritte dal gruppo grotte CAI di Novara. Si tratta di ben 11 grotte, dai caratteristici nomi tradizionali, tutte nelle viscere dello stesso monte: “grotta Burrone del Colonnello”, “du Saracinu”, “di Manichelli”, “da Sgangata”, “du Purtuni”, “di Muschi”, “du Cristianellu” (o grotta del Geppio), le tre grotte attorno alla “Vecchia Cava”, e infine quella più affascinante, o forse solo la meglio esplorata: la “grotta ‘Ntonimaria”. Nota da sempre ai locali per via della forte corrente d’aria che promana dall’entrata, la grotta prende il nome dal pastore che la segnalò al CAI, Antonio Folino, per tutti “’Ntoni e Maria”, dove Maria era il nome della madre. Si trova nei pressi di contrada San Minà, vicino Caronte, nel territorio di Sambiase, sul versante meridionale del Sant’Elia. Si tratta di una grotta su tre livelli, ad andamento labirintico.

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Già poco dopo il suggestivo ingresso è possibile ammirare una colata stalattitica resa verdastra dalla microvegetazione. Per penetrare ulteriormente bisogna essere accompagnanti da persone esperte che conoscono già il percorso e dotarsi della necessaria attrezzatura. Infatti la grotta è caratterizzata dalla presenza di pozzi e strettoie percorribili con corde, senza la possibilità attuale di un percorso alternativo. Si tratta delle “strettoie del Paggetto” e delle “gallerie della Contessa” attraverso le quali si giunge ai blocchi di calcite bianca della “sala dell’Ignoto” e poi, non senza fatica, passando per il “meandro dei Fiori”, alla “sala dei Candelabri” e alla vasta “sala del Magnificat”, così definita dai primi scopritori: “La sala rappresenta quello che ogni speleologo spera di scoprire almeno una volta nella propria vita: uno scrigno cristallino bianchissimo dove ogni forma di concrezione trova rappresentazione: stalattiti, stalagmiti, drappeggi, colate, gours zeppi di cristalli, un pavimento di candido alabastro dove stonano le impronte delle nostre calzature”. Questa sala dal nome eloquente, è l’unico posto della grotta dove si trova ancora acqua, a parte un laghetto temporaneo dal fondo fangoso dove “la dissoluzione differenziata del calcare ha messo in evidenza migliaia di gusci fossili costituenti la roccia che ospita la grotta”. Luoghi magnifici, esplorati ultimamente in profondità dal gruppo speleologico “Le forre del Tirreno” rappresentato da Paolo Cunsolo, grazie all’appoggio dell’Associazione locale “Santi 40” che organizza anche visite guidate di superficie aperte ai non esperti, e fornisce informazioni sulle grotte. Partecipano alla divulgazione di materiale su questo immenso tesoro il giovane appassionato Giovanni Mazzei e il veterano esperto di natura Francesco Bevilacqua che tuttora collabora con il CAI.

Giulia De Sensi

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