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La città come luogo di intrattenimento e di svago sembra privilegiare i cinghiali rispetto ai bambini. Ma, si sa, Lamezia è città inclusiva. Guai a far cambiare rotta alla natura. Del resto l’Unione Europea con le sue direttive improntate a una demagogica impostazione ecologica sembra spinta dalla volontà di estendere le politiche di coesione anche ai cinghiali, forse con lo scopo (non dichiarato) di equilibrare la grave fase di depopolamento della Calabria (Il Rapporto Svimez 2025 prevede che entro il 2050 la popolazione si ridurrà di ben 350mila unità). Un programma subdolo, quello europeo. Peraltro i cinghiali di Lamezia, attirati da uno strumento urbanistico evidentemente attrattivo e con una possibilità edificatoria molto estesa (è previsto l’insediamento di un numero illimitato di nuovi abitanti), non si lasciano pregare per ripopolare la città in evidente crisi demografica.
Fatto sta che il Parco Mastroianni è diventato un habitat naturale per frotte di ungulati che prediligono la movida notturna in spazi erbosi, e che indisturbati usufruiscono a pieno titolo degli standard urbanistici, quale il verde urbano, e le opere di urbanizzazione primaria, ovvero gli impianti di illuminazione e le strade, senza aver contribuito nemmeno come zampadopera. Pare che le scuole ancora non le frequentino, forse perché dotate di robuste recinzioni e non di spazi aperti. Però rivendicano, a tutti gli effetti, la qualità di abitatori senza fissa dimora, grazie all’implicito riconoscimento del diritto di cittadinanza, viste le ampie tutele e le attenzioni loro riservate dalle vigenti normative in materia ambientale e dai relativi monoculari guardiani. Generalmente scavano buche, divelgono piante, provocano danni ingenti alle colture, comunque – a dire il vero – un po' meno dei mafiosi e delinquenti ordinari in velluto nero, o comunque vestiti. Abitano al di fuori del perimetro del centro abitato e, perciò, hanno la facoltà di non dover richiedere licenze edilizie, come fino a metà del secolo scorso, e senza doversi preoccupare di rendere conto delle proprie deiezioni alle autorità sanitarie. Un bel privilegio in termini di libertà assoluta!
Un solo povero maiale, di un altrettanto povero anziano contadino – uno dei pochi rimasti ad abitare le aree montane con una grande prova di resistenza –, deve invece temere controlli e certificazioni ed è costretto ad abitare in una stalletta e garantirsi i servizi di toilettatura con irrinunciabile orecchino identificativo. Poi le deiezioni vanno accuratamente immagazzinate, ben conservate e trattate. Forse perché è una questione di classe, che diamine! Ma, a pensarci bene, il vero problema del povero maiale è che non è nato cinghiale. E poi – qualcuno dice – che esiste l’uguaglianza!
Ma non è finita qui. Ci sono ben altre differenze, anche tra i cinghiali e l’anziano contadino, che non ha ben capito che la città e il territorio sono luoghi di sfide, di insidie e di paradossi soprattutto in questo momento nel quale la transizione ecologica propende per una nuova forma di squilibrio. Per alcuni versi, la Fattoria degli animali di George Orwell sembra una cosa reale, perché i fattori naturali e ambientali di fatto tendono a prevalere sull’homo faber visto come un pericolo facente parte di una minoranza da governare nel regno degli ungulati (animali e umani che siano).
Fatto sta che non solo in aperta campagna, ma anche in prossimità degli abitati, e spesso dentro le strade urbane, i cinghiali godono di tutte le libertà e si stabiliscono dove meglio credono, parcheggiando anche in fila multipla. Spadroneggiano, sono occasione di gravi incidenti stradali, possono essere potenzialmente causa della diffusione di malattie virali, batteriche e parassitarie, e uccidono animali domestici. Non solo: possono raschiare piante, grufolare e strofinarsi sui tronchi per liberarsi dei parassiti provocando la morte degli alberi, in grande quantità. Deboscano a macchia di leopardo, senza chiedere l’autorizzazione: che libertà! E senza mai aver ricevuto una contestazione dagli ungulati umani perché il Codice penale non li considera come possibili autori di reato! Al contrario del povero anziano che, intriso di sudore e di terra che impastati segnano le unghie, viene messo sotto processo da un giudice, di fresco profumo, con pantaloni stretti e impomatato fino all’inverosimile. La sentenza è chiara: il contadino va condannato perché non è un cinghiale, l’unico titolato a far morire gli alberi e che è affrancato di ogni forma di burocrazia. A confronto, il contadino arrancante piegato dall’artrosi e dall’altra il baldo signore con ampio giro di toga, vestito di nero, che a testa alta non sa nemmeno cosa sta giudicando.
Ma vuoi vedere che c’è la dittatura degli ungulati?
