Tra mafia, Stato e strane santità

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Del resto la difficoltà di riempire di contenuti il senso di queste parole in poche righe, spinge a cercare aiuto alle immagini, alle metafore.

Laocoonte, figura della mitologia greca, avvinghiato da due enormi serpenti, si presta molto a rappresentare il cittadino comune che si trova angariato dalla mafia e dallo Stato. E sembra paradossale che nello Stato (di crisi) in cui si trova Lamezia nessuno abbia il coraggio di raccontare la verità, fino in fondo. Gli avvertimenti della mafia di questi ultimi giorni e gli atteggiamenti rassicuranti delle istituzioni sono sintomo di una crisi profonda. In silenzio si chiudono attività, ci si “libera”, ci si priva, con preoccupante progressione della proprietà di molte aziende agricole (piccole soprattutto), asfissiate dallo Stato prima e dalla mafia poi, tanto da sembrare un sodalizio stabile. Le “regole” dello Stato spesso convergono con quelle della mafia, entrambe tendono a sfiancare qualsiasi iniziativa di chi vorrebbe restare: una sorta di convergenza parallela, ben sperimentata dalla politica. Non è una novità se si pensa che è storicamente documentato che a partire dall’Ottocento si insedia a Nicastro un primo nucleo “camorristico” che ancora oggi, sotto forme ed etichette diverse, governa il territorio.

Qui bisognava fare i “conti” con la “santa” burocrazia ufficiale e dei vari segmenti dello Stato (licenze, autorizzazioni, nullaosta, pareri, iscrizioni ai vari esattori istituzionali, configurando in qualche modo il pizzo di Stato come lo ha definito qualche anno fa l’attuale premier, ma quando si trovava all’opposizione), che vivono di regole sfumate, pronte ad affermare una cosa ma anche l’esatto contrario, costringendo Laocoonte a rivolgersi alle santità locali, spesso beatificate dal voto elettorale. Non è lontano nel tempo il terrore di chi, soltanto perché immaginava di intraprendere una attività economica, sapeva di essere costretto ad abbandonarsi ai due serpenti: una condizione necessaria per restare in questa terra. La “burocrazia” sommersa richiedeva un’autorizzazione preventiva da parte del serpente capomafia della “locale” (il consiglio diretto era: “se non pensi di poter guadagnare una cifra superiore al pizzo, non ti conviene proprio intraprendere l’attività”). Un suggerimento da buon padre di famiglia – una sorta di atto di prevenzione –, un avvertimento comunque utile per chi aveva deciso di avventurarsi nel sistema delle “tassazioni” plurime rimanendo in questa terra, abbarbicato alle proprie nostalgie, spesso di un’infanzia inconsapevole e troppe volte esaltata.

Qui si salta a piè pari l’età di mezzo, qui è vietato diventare adulti – per poterlo fare bisogna andare oltre Eboli. E nessuno lo vuole certificare, perché fa comodo alle “santità” statali sapere che meno si è e più il voto e il territorio si possono controllare, in forma capillare.

Per tali motivi la “restanza” di Vito Teti è un sogno complesso, difficile da praticare in questo Stato (di cose) soprattutto dai pochi semplici turisti pensionati in compagnia di badanti nei “presepi” – così Lucio Gambi definiva i paesi abbarbicati – della Calabria. Lo stesso “Piano per l’economia sociale” per contrastare la fragilità dei territori attraverso la costituzione di imprese sociali erogatrici di servizi, sembra l’anticamera iperbarica dei centri interni della Calabria di badanti e non certamente di una regione in grado di autogestirsi. Appare paradossale affidare la permanenza in vita della Calabria all’esistenza degli ultimi anziani che ormai costituiscono la maggioranza improduttiva e a un nuovo modello di assistenzialismo, attraverso l’istituzione di una sorta di Cassa del Mezzogiorno, questa volta, di tipo esclusivamente sociale che sembra però richiamare l’obiettivo di una cassa per una Calabria pronta a morire.

Non si può risolvere il problema delle aree interne pensando a una sorta di Rsa diffusa, sul modello infingardo e snaturante dell’albergo diffuso. Un progetto efficace dovrebbe forse puntare sulla creazione di attività economiche che passano necessariamente dall’uso delle risorse esistenti, iniziando proprio dai boschi. Strano ma vero, soprattutto se si guarda alla storia della formazione dei centri abitati delle aree interne.

Una posizione assai moderata, questa, ma sembra l’unica possibile, perché se si guarda indietro si ha la sensazione che sia troppo lontano lo spirito della rivolta del 1599, espressione della necessità di una sollevazione antispagnola e antifeudale, contro due antichi serpenti, oggi rinnovati sotto nuove spoglie.

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