Lamezia: a Trame 8 Ian Manook e le avventure di Yeruldegger, il commissario della Mongolia

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Lamezia Terme - Purtroppo non ci sarà una nuova avventura di Yeruldegger. 

Appena terminata la presentazione del suo ultimo libro a Trame 8 la prima cosa che ho chiesto a Ian Manook è stata se avremmo letto un nuovo capitolo sullo straordinario commissario mongolo. La sua risposta è stata un monosillabo senza speranza: “No”. Poi con il suo musicale linguaggio italo- francese- spagnolo- inglese ha aggiunto: “Ormai ho settanta anni, non ho molto tempo davanti a me ed ho altri progetti letterari da realizzare”.

Quando si incontra un autore di un libro che si è amato la paura è che quella persona in carne e ossa risulti una delusione, che non ci sia rapporto alcuno tra le emozioni del suo scrivere e i sentimenti che trasmette l’uomo.

Non è stato così per Patrick Manoukian, lo scrittore francese di origini armene, vero nome di Ian Manook, che con la sua trilogia del commissario della squadra omicidi di Ulan Bator è diventato un caso letterario, realizzando uno dei personaggi più originali, affascinanti e convincenti nel panorama del noir.

Parla senza enfasi il giramondo Manook, racconta una Mongolia che conosce bene e di cui è innamorato, un paese suggestivo e misterioso, in bilico fra una antichissima cultura e una modernità cinica e spietata. Difende una bellezza che è fragilissima e quando gli dico che leggendo il suo libro ho compreso più di dieci saggi sulla evoluzione sociale, culturale e politica di quella parte del mondo, e quindi del mondo intero, un po’ si sorprende e poi sorridendo dice solo: “Grazie, è una bella cosa”.

Ciò che rende unico il suo tratto letterario non è solo l’idea della Mongolia come ambientazione dei romanzi ma che i due piani del racconto, quello della indagine poliziesca e quello della indagine sociale e politica sono talmente interconnessi, così ben miscelati e profondi che capisci che non c’è alcuna forzatura in ciò che racconta, che la “geopolitica” non è una parola astrusa ma qualcosa che ha a che fare con i destini di intere popolazioni e che riesce ad incidere perfino sul carattere dei singoli.

In mezzo c’è lui, Yeruldegger, il commissario intriso di insegnamento Shaolin e di tradizioni nomadi e sciamaniche, facile all’ira e al furore, perennemente alla ricerca di se stesso dentro un paese infinito e magnetico che la scrittura di Manook restituisce come una immagine in 3D, come uno scenario su cui accomodarsi, come la sabbia del deserto che senti sulle mani mentre lo leggi. Senza dimenticare le straordinarie figure femminili dei suoi romanzi, Oyun e Solongo su tutte.

Puoi pensare che questa attrazione è tipica dell’uomo occidentale, da sempre affascinato da tutto ciò che esula dalla sua razionalità, talvolta travolto dal ridicolo quando cerca di scimmiottare ciò che per altre culture è normale.

Poi penso a De Martino, al suo Sud e Magia e allora mi viene in mente che in fondo, anche molto più vicino a noi, abbiamo convissuto con una cultura, oggi quasi dimenticata, che non disdegnava approcci originali col sovraumano.

Anche per questo ha scelto di ambientare in Mongolia la sua trilogia. “Nella immensa steppa la cultura sciamanica - spiega - ha ancora un profondo significato, è una eredità vivente. Non si tratta di una religione ma di un modo di sentirsi parte di un tutto. Ed anche la morte, l’elemento più importante per un libro giallo, assume una diversa connotazione. La morte è solo parte di un ciclo e pertanto il rapporto con essa è differente dalla cultura occidentale. Questo mi ha permesso di sovvertire un po’ i codici abituali del giallo relativamente alla morte, alla violenza, al destino”.

Da un lato, quindi, un mondo altro, che sa fermare l’attimo, dialogare col trascendente. Dall’altro ciò che accomuna il mondo, che è uguale dappertutto, il cinismo del potere, gli interessi internazionali, le grandi speculazioni, la cultura omogeneizzante.

In mezzo un paese che rischia di essere travolto dal suo sviluppo, con il deserto che avanza di otto metri al giorno e un ambiente che inizia ad essere devastato a causa di una economia basata su tre elementi: le miniere di terre rare; il chachemire e il turismo.

“Il paradosso - dice Manook – è che tutta la moderna tecnologia, dai telefonini ai computer e paradossalmente anche quella che serve per migliorare l’ambiente, il solare, l’eolico, ha bisogno per funzionare di questi elementi minerali ben presenti in Mongolia. Ma per estrarli bisogna distruggere l’ambiente, deviare interi fiumi per utilizzare l’acqua. Il risultato è la devastazione della steppa che non ha potere autorigenerante. Una volta distrutto lo strato superficiale la terra diventa deserto. Il nomadismo è una cosa seria, una tecnica di sopravvivenza in un ambiente ostile non una scelta di vita romantica”.

Gli chiedo come hanno reagito i mongoli ai suoi romanzi: “Mi hanno detto che era giusto, non ho scritto cose inventate. Questo mi ha reso molto felice.”

L’unico rammarico è che forse avrebbe meritato una platea più ampia, una maggiore pubblicità. Ma si sa, quando ami qualcosa vorresti che lo amassero tutti.

Claudio Cavaliere

(foto di Mario Spada-Trame Festival)

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