Francesca Liparota: “Costruire Communitas”

Francesca-Liparota.jpgLamezia Terme - Se è vero, come scrive Nietzche che “Gli uomini migliori rimangono nascosti, spesso ignoti persino a se stessi”, mi chiedo se parlare di “Economia di pace” in questa  terra di ‘ndrangheta, non ci costringa ad interrogarci, con più forza e determinazione,  sul senso della vita e sulle sue infinite declinazioni. Sono fermamente convinta che l’economia di pace non sia una costruzione ideologica e nemmeno un obiettivo da conseguire accanto ad altri (la prosperità, la democrazia ecc.), ma la motivazione che deve sostenere le nostre scelte, perché i nostri modi di vivere sono essi stessi azioni, quindi portano notevoli conseguenze.  Determinante, allora, è ciò che scegliamo di pensare e di fare a partire da questo istante, perché questi pensieri e queste condotte daranno origine al futuro.
Se dentro di noi albergasse l’intima convinzione della necessità del bene comune, se scegliessimo ogni giorno l’opzione per il benessere di tutti e per l’accettazione reciproca, non avremmo bisogno di abusare della parola “etica”: etica dello sport, etica delle professioni,  dibattito etico, codice etico…..

Mi chiedo quale spazio possano conquistarsi concetti di pace, fraternità, gratuità, reciprocità in un ambito come quello economico, dove la spinta alla impersonalità dei legami non solo è forte, ma è addirittura presupposto di una buona conduzione degli affari. Fino a che punto è possibile stare alle regole, a ciò che è giusto, morale, probo, quando la gente attende solo un risultato che torni a proprio vantaggio? Perché ci ostiniamo a considerare ancora positivamente il mito della crescita del prodotto interno lordo?Forse esso cadrà quando costruiremo “comunità” e riusciremo ad elaborare un nuovo modello di sviluppo, capace di liberare il nostro futuro dall’angoscia che il mito della produzione oggi ci impone.  Il concetto di benessere non può essere ridotto soltanto al possesso del denaro: mentre da un lato un reddito basso determina stress per l’individuo, dall’altro un reddito maggiore è direttamente collegato ad un aumento delle ore lavorative e, di contro, comporta una diminuzione dei beni relazionali, intesi come relazioni interpersonali e sociali.  Proiettata sulla collettività, tale situazione porta all’aumento della solitudine, allo sviluppo di comunità virtuali che hanno sostituito le comunità reali e che, con i suoi individui “connessi ma soli” si presentano come inefficace palliativo per una solitudine sempre più tangibile. Dobbiamo chiederci, con più forza, se abbiamo ancora voglia di continuare in quella che Georgescu Roegan  (Energia e miti economici, Bollati Boringhieri) definisce la sindrome del rasoio e cioè inventare un nuovo rasoio che ci dia la possibilità di raderci più in fretta, per avere ancora più tempo a disposizione per poter inventare un altro rasoio che ci faccia radere ancora più in fretta del precedente e così via, in una spirale infinita che rende gli uomini sempre più simili ai criceti che corrono in una ruota dentro una gabbia, fino a sfinirsi.

Il nostro modello di sviluppo non solo ruba risorse e quindi il futuro dei nostri figli: esso è cronofagico, mangia il nostro tempo, riduce quello non destinato alla produzione a tempo inutile, legittima Franklin a dire una frase per me demenziale come “Il tempo è denaro”.  Il tempo non è affatto denaro, non è produzione, e sul suo altare non siamo disposti a sacrificare la nostra vita, i nostri spazi di riflessione e di meditazione, i nostri affetti. Leggendo il Vangelo di oggi, il prete sottolineava ai fedeli quante volte apparisse la parola “amore”: parlare d’amore, costruire comunità, significa aprirsi al bisogno dell’altro, prendersi tempo per stare insieme, per generare relazioni. Come scrive Luigino Bruni “le persone con le quali siamo legati e allacciati nelle comunità non le scegliamo, se non in minima parte. Il cum, che deriva dalla radice latina del termine, non lo creiamo noi ma ci precede, è più grande di noi.” I nostri compagni di comunità ce li troviamo accanto, alcuni non ci piacciono, molti non li sceglieremmo come amici così come non scegliamo i membri della comunità originale, la famiglia; eppure sono inevitabilmente lì, noi dipendiamo da loro e loro da noi.

Un ulteriore spunto di riflessione mi è stato offerto dall’ideogramma cinese della parola crisi, Wej-ji, composto da due parole, pericolo ed opportunità. Un po’ di povertà, in fondo, non fa male: trattiene i consumi che avevamo spinto all’eccesso, spopola i ristoranti dove la gente, seduta intorno a enormi tavolate, non riesce più a scambiare una parola, riduce il traffico che trasforma individui tutto sommato pacifici in Terminator al volante, allenta la morsa della necessità di vestire con improbabili aquile sulle nostre magliette e loghi di ogni genere sparsi sui nostri vestiti, assottiglia le orde di turisti nei luoghi come Sharm el -Sheikh, tutti convinti che basti mutare cielo per mutare stato d’animo. La crisi, se da una parte toglie  soldi dalle nostre tasche, dall’altra ci offre l’opportunità di incominciare a riflettere sul ritmo facinoroso che ha assunto la nostra esistenza; evidenzia come la nostra ostinazione a perseguire l’arricchimento ci abbia lasciato sospesi sul vuoto e padroni del nulla; in tal senso, il momento che stiamo vivendo potrebbe essere interpretato come un’occasione per correggere non solo i nostri costumi, ma anche la qualità del nostro sguardo sulla vita e sul mondo. Concludo con le parole del biologo cellulare Bruce H. Lipton, nel fermo convincimento che quei luoghi dell’abitare inteso in senso heideggeriano, dei quali parla Francesco Bevilacqua, siano ormai l’unica realtà non solo auspicabile, ma possibile.

Abbiamo la capacità, e secondo me anche l'imperativo evoluzionistico, di fermare la violenza. Il modo migliore per fermarla è capire che siamo esseri spirituali che hanno bisogno di amore e di pace come del cibo. Ma non saliremo al gradino evolutivo successivo soltanto pensandolo, così come non possiamo cambiare la nostra vita e quella di nostri figli semplicemente leggendo dei libri. Dobbiamo aggregarci in comunità di persone con lo stesso orientamento di pensiero, che lavorano per una civiltà migliore attraverso la comprensione che la “Sopravvivenza del Più Amorevole” è l'unica etica che ci assicurerà non soltanto una vita individuale sana, ma anche un pianeta sano.  Bruce H. Lipton

© RIPRODUZIONE RISERVATA