Enrico Ghezzi in Calabria tra Berto, Kubrick e tv iconoclasta: “Questione di autonomia”


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di Francesco Sacco.

Capo Vaticano - Ripercorrendo attentamente la storia della tv nazionale, risulta difficile, se non impossibile, trovare un personaggio come Enrico Ghezzi. Critico cinematografico, autore televisivo, saggista e libero pensatore, Ghezzi rappresenta uno dei maggiori intellettuali italiani, un genio anarchico in grado di disfare e riassemblare la televisione attraverso una concezione estremamente innovativa del mezzo stesso. Programmi come Blob e Fuori Orario sono ormai parte integrante della cultura e della società italiana, così come le sue analisi notturne fuori sincrono o le singolari conversazioni con David Cronenberg, Shinya Tsukamoto e Carmelo Bene. Lo abbiamo incontrato a Capo Vaticano, in chiusura della prima edizione di “Estate a Casa Berto”, mini rassegna cinematografica (dal 18 al 22 agosto) curata dallo stesso Ghezzi e dedicata, in parte, alla figura dello scrittore Giuseppe Berto (“Il cielo è rosso” di Claudio Gora e “Anonimo Veneziano” di Enrico Maria Salerno). In programmazione anche autentiche chicche come “Paura e Desiderio”, opera prima maudite di Stanley Kubrick, “Il sipario strappato” di Alfred Hitchcock e “L’isola di Bonaria”, docu-film firmato Veneziano/Lattari/Mottolese, premiato all’Etuscia Green Movie Fest. Il confronto ha messo in evidenza, una volta di più, un approccio alla materia torrenziale e generoso, un sapere enciclopedico disarmante, ricco di citazioni e digressioni filosofiche ai limiti dello stream of consciousness joyciano.

Che rapporto ha con le opere di Giuseppe Berto?
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Per me il cinema di Berto è “Il cielo è rosso”, che fu anche uno dei primi libri che lessi da giovane. Un romanzo strano, retorico, addirittura lirico: squarci lirici ben tenuti e in parte reinventati da Claudio Gora nel film. È stato molto interessante rivedere il suo tentativo di tradurre il testo scritto in un’opera aspra, che non ha un suo genere, fuori dagli schemi e dal cinema ufficiale. Lessi anche “Il male oscuro”, ma “Il cielo è rosso” mi fece un’impressione enorme. Letteratura e cinema sono due momenti della stessa situazione ed è così ancora oggi, seppur con ritardi da una parte e dall’altra, illusioni e posizioni ideologiche differenti".

Al di là delle pellicole legate a Berto, un film che spicca all’interno della rassegna è certamente “Fear and Desire”, primo lungometraggio di Stanley Kubrick, in un certo senso rinnegato dallo stesso regista…
"Tengo molto a “Paura e Desiderio” che, oltre a essere un titolo talismano per me, è anche il titolo della mia prima raccolta di scritti sul cinema. Il nesso con le altre pellicole è molto debole, ma, pur non essendo un grandissimo film, resta un momento affascinantissimo, decisivo e addirittura pre-riassuntivo. Dopo l’autocensura dello stesso Kubrick, la famiglia, fino a due anni fa, ha impedito qualsiasi operazione di distribuzione in maniera, secondo me, un po’ ottusa, ed è stato giusto battersi per farlo vedere perché è un esordio davvero sorprendente, una sorta di chiave en arrière di tutta la sua opera. E Kubrick rifiuta questa genealogia proprio perché svela troppo: svela quello che ci fa vedere, il soggetto, e svela il suo impegno nell’oggetto cinema. Un plot molto ricco, da commediografo anche pretenzioso se vogliamo, vicino al cinema d’autore europeo, con un registro addirittura shakespeariano, fortemente debitore nei confronti de “La tempesta”. La sceneggiatura, forse, è un po’eccessiva, nel senso che abbraccia tutto: è la storia del mondo, lo dichiara sin dall’inizio, e questo, per ammissione dello stesso regista, credo sia il suo errore principale. “Paura e Desiderio”, in un certo senso, si confronta con un’idea di cinema che sarà proprio quella da lui utilizzata in seguito, un cinema della visibilità, del racconto. Già nella prima parte, per esempio, assistiamo all’installazione di un sistema di codice visivo straordinario, una plurisoggettività che ispirerà il Terrence Malick de “La sottile linea rossa”, un film stupefacente. D’altronde, per Kubrick, il cinema è guerra: sguardi diversi, scontri massicci, razionali e irrazionali. E trovo interessantissimo anche ciò che è successo a “Fear and Desire”, perché c’è tutto: la hybris di un cineasta, il suo tentativo di ergersi rispetto ai propri errori, alle tentazioni del cinema, virando verso una facilità apparentemente banale. All’inferno e ritorno potrebbe essere il titolo giusto".

Naturalmente, lei è anche un noto personaggio televisivo, autore di due tra i più innovativi e longevi programmi della televisione italiana: Blob e Fuori Orario. Cose (mai) viste. Come spiega il successo di due prodotti che potremmo definire indipendenti, così distanti dai classici canoni del piccolo schermo?
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Questi programmi, veramente, sono avulsi rispetto all’intera storia della televisione mondiale. Blob e Fuori Orario erano trasmissioni che godevano di una certa oscurità, due programmi totalmente anarchici. Non lo sono diventati acquisendo potere, ma eravamo da subito in un orizzonte di grande autonomia. Questo conta: l’autonomia, che è una forma estrema ma decisiva per liberare lo spettatore, gli autori e lo stesso servizio pubblico dalle litanie, dalle parole d’ordine ideologiche. Ciò fu possibile perché, per una congiuntura storica fatale, eravamo arrivati a questo cambio della guardia in Rai: Veltroni aveva messo Angelo Guglielmi (già autore di programmi rivoluzionari) alla guida di RaiTre e non credo di aver mai visto persona più autonoma nel proprio lavoro. Ci sono stati tentativi di farci ammainare bandiera, soprattutto per quanto riguarda Blob. Volevano spostarci in seconda serata, per esempio, in modo tale da avere più spazio e poter lavorare meglio, secondo loro. Ma ho sempre sostenuto sarebbe stato negativo per la trasmissione. Blob ha senso dov’è. In realtà non ha senso nemmeno lì perché Blob non ha senso. Ma il suo nonsense cominciava all’ora in cui c’era il Tg1, e questo era fondamentale. È un’ora in cui passano gli sguardi dei bambini, delle famiglie, tutti gli sguardi. All’estero ci si meravigliava del fatto che ogni puntata venisse realizzata il giorno stesso, perché l’esempio che avevano era Zapping, un programma francese analogo che aveva bisogno di una miriade di autorizzazioni, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo di pezzi di altre televisioni. Ero molto divertito dal conoscere i dibattiti su Blob, all’estero e nel nostro Paese, perché il programma ritenuto più nuovo della televisione italiana, in realtà, era fatto solo di cose vecchie. Un po’ come Schegge, la trasmissione madre di questa nostra tv virale, che è puro repertorio e potrebbe essere fatto da autori warholianamente copisti, diciamo".

Citando Guy Debord, di cui si è occupato a più riprese, la società italiana può esser definita una “società dello spettacolo”? Quanto ha influito l’opera di Debord sulla creazione di un contenitore anarchico di immagini come Blob?
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Può sembrare che l’Italia non sia stata, fino agli anni ’80, una società dello spettacolo in senso debordiano, ma la sua era già una società rituale, fittizia. Debord faceva parlare le altre voci, altre immagini. La linea debordiana è molto dichiarata in Blob. Per quanto mi riguarda, ho sempre frequentato molto i suoi testi, la sua letteratura e il suo cinema, ma non è mai stato un vangelo, non vi erano riunioni per commentarlo. La maggior parte dei co-autori e dei ragazzi in redazione magari non l’aveva mai letto. In un certo senso, le cose più vicine a Debord sono state, da una parte, l’autorizzarsi da soli e, in secondo luogo, le singole forme di lavoro e di sguardo anti-ideologico sull’ideologia. L’ideologia è un sistema che nasce per autogiustificarsi, per giustificare tutto ciò che dice il soggetto o un insieme di soggetti: è un sistema comunque totalitario e abietto contro cui è giusto lottare. Debord c’entra, ma c’entra anche Duchamp, così come tutte le avanguardie che sono in realtà molto retroguardie (Schwitters, Dada, Benjamin). Questi sono gli eroi eponimi e anonimi di Blob e Fuori Orario che, non a caso, si sono comunque appoggiati su altri miti come Orson Welles o Godard. C’è mezzo scibile del ‘900 e non solo. Potrei citare anche il “naufragio con spettatore”, la celebre metafora utilizzata da Lucrezio nel “De Rerum Natura” approfondita, poi, da Hans Blumenberg".

Come nasce e cosa rappresenta l’idea del fuori sinc in Fuori Orario? Assume valenza simbolica e metaforica? O è soltanto un espediente per spiazzare lo spettatore?
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Nasce come espediente pragmaticamente comodo dato che tutto veniva montato sul momento e a diversi chilometri di distanza. Era un continuo autoincalzarsi, qualcosa di caotico, un po’come nel film di Scorsese. Fu una scelta ispirata anche dalle tesi sul fuori sinc, seppur non in senso filmico, di Derrida. Credo sia stata da subito una delle forme non dette di Fuori Orario. E’ un po’ il problema dell’immagine stessa: o è asincrona o non esiste. Riprendendo una lunga diatriba medievale per me molto personale, se l’immagine si avvicina troppo alla riproduzione non è immagine, è vicinissima al corpo del testo, è la persona stessa".

Spesso il cinema, riprendendo le teorie di McLuhan, si è posto in modo molto critico nei confronti della televisione ­– è il caso di cult come “Quinto Potere” di Lumet o “Videodrome”di Cronenberg – soprattutto in merito al potere persuasivo esercitato sul pubblico. Qual è la sua posizione da uomo di cinema e di televisione?
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Godard diceva “il cinema è il cinema”, ma la televisione, secondo me, non è la televisione. Almeno non solo. Tutto quello che passa diventa televisione. E questa è notoriamente una delle preoccupazioni pie dell’intellettuale medio armato, o disarmato, contro la tv che schiavizza e rimbecillisce, facendo sembrare tutto uguale. Per me è un puro fraintendimento. Trovo questa uguaglianza, che è comunque vera, una formidabile provocazione, uno shock. La televisione è il contrario della cultura, non è un mezzo controllabile ma non domina nulla. Tra l’altro, trovo molto democratico avere ormai a disposizione migliaia di canali che impediscano di stare su una sola cosa per volta. E il concetto di democrazia, di libertà tra le immagini un po’ ci sfugge. Il rapporto tra cinema e televisione, a mio avviso, deve partire da questo, altrimenti diventa un soggetto accademico di moralismo di serie C".

David Byrne dei Talking Heads ha definito il cinema, al pari della musica, la forma d’arte ideale del ventesimo secolo. Lei è d’accordo?
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Il ventesimo secolo non ha una forma d’arte ideale, però è il primo secolo che in sé è un’opera d’arte. Un’opera d’arte totale che non so se ci uccide o ci lascia vivere, anziché vomitarci come Kronos. Ma una cosa è certa: il ventesimo secolo non ha una forma d’arte, è l’informale assoluto".

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