Lockdown voice messages beats, la quarantena lo-fi del lametino Strangis: "La mia piccola finestra sul mondo"

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di Francesco Sacco.

Lamezia Terme – “Strange days have found us”. Negli oltre due mesi di lockdown, la musica ha certamente avuto un ruolo rilevante nel tentativo di arginare il malessere derivato da una situazione pressoché inedita. C’è chi ha esorcizzato la paura con improbabili flasmob dal balcone, chi si è lanciato a capofitto in live streaming promossi persino da artisti di un certo spessore, e poi c’è chi, dopo una prima fase di incertezza, è riuscito a trovare la giusta ispirazione per sperimentare e dar vita a progetti originali alimentati proprio dall’atmosfera surreale che si respirava in tutto il mondo. Tra questi, il cantautore lametino Francesco Strangis, rientrato alla base dopo l’esperienza alla Lizard di Firenze, dove ha avuto modo di approfondire, oltre a quelli di chitarra elettrica e canto moderno, anche gli studi di arrangiamento e produzione musicale, aspetti che hanno contribuito ad affinare un background sempre più completo, seppur fortemente orientato verso il pop tricolore contemporaneo.

È il caso del suo esordio discografico, “Due cretini”, uscito nel 2019 per l’etichetta Mamma Dischi, singolo dall’indiscutibile potenziale radiofonico ma fin troppo in linea con i prodotti indie italiani. Non è però che uno dei volti di Strangis, dimostratosi, già in precedenza, abile compositore di soundtrack trasversali in grado di muoversi tra il post-rock à la Mogwai tanto amato da Michael Mann (“Al giorno d’oggi il lavoro te lo devi inventare”) e quel synth-pop da ‘80s revival che strizzava un po’ l’occhio al Nicolas Winding Refn di “Drive” (“Prenditi cura di me”). E potrebbe essere proprio il suo lavoro accanto al regista Mario Vitale l’ipotetico spartiacque nella creazione di “Lockdown voice messages beats”, autoproduzione lo-fi in cui far confluire sensazioni e storie di vita vissuta in quarantena, raccontate attraverso note vocali Whatsapp provenienti da diverse zone del globo. Si tratta, infatti, di undici beat multiculturali (dall’Italia al Brasile, passando per Spagna e Giappone) dalle innumerevoli sfaccettature, una serie di manipolazioni sonore, anche piuttosto riuscite, unite da un unico comun denominatore: il lockdown. Un progetto universale nato per dar libero sfogo alle suggestioni assimilate negli anni, a partire dall’insospettabile passione per l’hip-hop, e al contempo una sorta di viaggio terapeutico capace di annullare le distanze in tempi di divisioni imposte ma, a conti fatti, necessarie. Forte di un concept tanto ambizioso, in tutto il suo minimalismo, “Lockdown voice messages beats” si rivela uno spaccato coinvolgente che fotografa alla perfezione un’umanità sospesa, isolata in una bolla esistenziale pronta a esplodere attraverso un meccanismo di deflagrazione virtuale innescato da un autore dotato di una sensibilità rara. Quello di Strangis è un nuovo modo di veicolare il proprio disagio attraverso il senso di smarrimento comune, non importa se appartenente a emisferi diversi: un melting pot di lingue, culture e stili così lontani, eppure mai così vicini. È il potere catartico dell’arte. È una questione di resistenza e, perché no, resilienza.

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Tu come hai vissuto, non solo in qualità di musicista, questo periodo di clausura forzata?

“Sono passato da diversi stati d’animo. La prima fase è stata quasi di abbandono, non avevo voglia di suonare e ancora meno delle dirette su Instagram. Questo per le prime due settimane, poi si è sbloccato qualcosa e ho iniziato a considerare questo periodo come una possibilità di crescita personale. Ho iniziato a fare yoga e seguito webinar su argomenti che non avevo ancora esplorato. Come musicista, invece, ho ricominciato a studiare chitarra e produzione”.

Come nasce il progetto “Lockdown voice messages beats”?

“Nasce dall’esigenza di comunicare e rendere pubblico il mio piccolo punto di osservazione sul mondo, con quella che considero una piccola “fotografia musicale” del periodo che abbiamo vissuto tutti e che, spero, non dimenticheremo. Ho messo insieme i messaggi vocali che mi avevano inviato amici sparsi in Italia e fuori per entrare in un minuto nella vita delle persone e, semplicemente, ascoltare. Uno dei messaggi che mi ha dato modo di ripartire è presente nel disco e tu ne sai qualcosa: si tratta dell’ultima traccia, in chiusura”.

Vagamente, sì. Hai esordito un anno e mezzo fa con un primo singolo di chiara matrice pop, “Due Cretini”, lavoro incastrato tra due colonne sonore per altrettanti cortometraggi di Mario Vitale che oscillavano tra post-rock e synth-pop. Come si arriva ora a un disco lo-fi di beat così variegati (hip-hop, chillout, lo stesso synth-pop e via dicendo)?

“’Due Cretini’ è un pezzo di cantautorato/pop a cui tengo molto perché nasce intanto da una storia che avevo la necessità di raccontare, e poi perché frutto di studio sul modo di scrivere canzoni in italiano, mentre venivo da ascolti prevalentemente internazionali. Ho avuto la fortuna, durante il mio percorso, di collaborare e conoscere persone aperte mentalmente e musicalmente, tra cui Mario Vitale nell’ambito cinematografico e i miei insegnanti alla Lizard. Una cosa che credo mi caratterizzi è la curiosità verso più generi musicali. Per un musicista live e in studio è fondamentale esplorare e non fossilizzarsi su un unico genere, per questo cerco sempre di aggiornarmi e ampliare il mio linguaggio tecnico e teorico.
Per questo stesso motivo, poi, ho deciso di seguire una masterclass, durante questa quarantena, di Davide Shorty (produttore e rapper siciliano di base a Londra), che mi ha permesso di vedere il suo modo di lavorare ai beat. Con quello che ho appreso ho colmato il gap tra il mio modo di suonare più tradizionale, con la chitarra, e l’approccio del beatmaker. Anche se in realtà il mondo dell’hip hop non mi è affatto nuovo, anzi fa proprio parte dei miei ascolti fin da piccolissimo”.

Puoi raccontarci il processo creativo durante l’elaborazione del disco? Cosa ti ha portato ad adottare un determinato stile per ogni nota vocale?

“Mi sono lasciato ispirare soprattutto dalla musicalità delle lingue dei miei interlocutori e dalle loro inflessioni, dalla dinamica della voce e anche dalle loro pause. Partendo da questo, ho cercato di creare un mondo sonoro compatibile e vivo, mutuato dai miei ascolti e dal mio gusto personale. In particolare, il mondo del genere lo-fi mi ha affascinato e coincideva con l’idea di produzione casalinga, bypassando lo studio di registrazione che siamo soliti immaginare come imprescindibile”. 

Parliamo, infatti, di un’autoproduzione, mentre “Due Cretini” era uscito per Mamma Dischi. Pensi che un progetto del genere avrebbe mai visto la luce con un’etichetta alle spalle?

“In un altro momento assolutamente sì, ma l’impossibilità di ragionare sul lungo periodo per le ovvie limitazioni che ancora esistono nel campo dei live mi ha spinto a preferire la forma dell’autoproduzione, che diventa parte integrante del concept del progetto e coerente al momento che abbiamo vissuto. Avevo l’urgenza di comunicare qualcosa che nella mia testa era già chiarissima. Inoltre, come hai notato, è un disco che si discosta completamente dal mio precedente lavoro uscito con Mamma Dischi”.

Quale futuro, secondo te, per chi lavora nel settore musicale dopo la pandemia?

“Mi piacerebbe vedere più collaborazioni a distanza, in studio, tra chi non vive esattamente dietro l’angolo. Spero che si riesca a trovare una formula sicura per riprendere al più presto le attività di musica live, perché tanta gente si occupa principalmente di quello ed è davvero necessario ripartire”.

Qual è la tua visione di quello che viene definito, spesso in modo un po’ approssimativo, indie italiano?

“È un gigantesco calderone al cui interno finiscono tante band e artisti validi, però ci sono evidentemente anche molti progetti costruiti a tavolino. Delle volte mi verrebbe da definire questi progetti semplicemente pop, in senso ampio e non negativo. Poi c’è chi viene dal rap e chi dal rock, ma è una linea di demarcazione a volte davvero sottile. Un cambio generazionale nelle produzioni di musica italiana era comunque necessario, ma dopo il picco di qualche anno fa, anche le “nuove” band si sono adattate alle richieste del mercato mainstream, smussando gli angoli più spigolosi”.

Dopo “Due Cretini”, l’esperimento “Lockdown voice messages beats” e un brano non ancora pubblicato ma già piuttosto apprezzato in altre sedi come “Finirà”, pensi che i tempi siano maturi per un primo long playing?

“Ho in cantiere il disco già da tempo, sono circa una trentina di brani tra cui dovrò scegliere. Il periodo appena vissuto mi ha però dato modo di ripensare gli arrangiamenti e non potrà più uscire nella forma in cui lo avevo immaginato prima del lockdown, quindi ci vorrà ancora un po’ e sarà diverso. Perché siamo tutti un po’ cambiati, più o meno consapevolmente”.

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