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Lamezia, città irrisolta, da sempre patisce il complesso di non essere stata Catanzaro e non essere riuscita a diventare Rende. E ancora oggi continua a consumarsi da sola, nel suo brodo di carne locale, di rancori e di mediocrità. Un brodo allungato di falsi miti antimafia e di istituzioni complici dell'annientamento dell'economia e della proprietà, azzannata subdolamente e che sta determinando una silente e radicale trasformazione del tessuto sociale locale, proiettata - anche per la fuga dei giovani - finanche alla svendita delle prime case in un mercato di dense zone d'ombra.
Con uno sguardo all'ambito territoriale, non può sfuggire che da sempre il suo mare e i suoi monti hanno riempito le pagine di programmi elettorali fotocopia. Salvo poi essere costretti ad accorgersi, ma solo quando ogni limite è superato, che il mare di Lamezia e i monti (anche per vane promesse di comiche teleferiche) sono offesi, negletti, putrescenti. Questo accade nonostante un fiume di inchiostro nel passato abbia tentato di segnalare l'esigenza di una politica di tutela, conservazione e valorizzazione delle risorse naturali, con una visione capace di superare il limite della politica meschina del permesso a costruire o dell'alienazione "da cassa di supermercato" del patrimonio comunale senza un chiaro programma territoriale finalizzato al bene della collettività.
Certo sarebbe riduttivo parlare di responsabilità della destra o della sinistra dopo un ventennio di governi locali di centrodestrasinistra, in perfetta continuità. Sarebbe perfino fuori luogo, se non fuori tempo massimo, e comodo infilarsi nella botola del luogo comune, che è quello di una rappresentanza politica che si offre con la qualità che anche gli orbi (al di fuori del territorio comunale) sono in grado di vedere e giudicare. Il problema è certamente più ampio, e investe direttamente il corpo elettorale avvitato su sé stesso e logorato dal più misero provincialismo, da mere logiche di vicinato e da una cultura profondamente mafiosa. Un contesto, quello di Lamezia, che appare come la cuscuta, un'erba parassita priva di radici, nota come pianta vampiro, capace di perforare la specie ospite, succhiandone la linfa e avvolgendola in inestricabili grovigli. Una pianta quasi immersa nell'acqua delle falde inquinate e oggi in parte sostituita da una costruzione pubblica eccessivamente gonfiata (il nuovo palazzetto dello sport di via del Progresso) e celebrata come il sol dell'avvenire, e invece esempio plastico e vivo (?) del fallimento (gravitando su un'area vulnerabile) della politica europea del Green Deal e della negazione di un'intera città che in questo momento storico ha invece bisogno di migliorare al suo interno. Una città che dovrebbe rendersi vivibile contrastando i gravi rischi che la pericolosa riduzione della popolazione comporta, cioè di perdere a breve termine anche il vero connotato storicamente definito di polo scolastico comprensoriale destinato a svuotarsi in un futuro non lontano con la formazione a distanza e ad essere ingoiato dal diplomificio privato e dall'intelligenza artificiale.
Ma bisogna riconoscere che in fondo Lamezia è una città mai nata realmente, combattuta tra una rappresentanza politica divisiva, culturalmente vocata alla dispersione urbanistica e che si crede erede dei Signori dominanti l'Italia tra XIII e XVI secolo (in Calabria anche oltre) o, nella migliore delle ipotesi, derivazione delle corporazioni delle arti e mestieri. Signori, che concentrano in sé tutti i poteri, sostengono di rappresentare ogni virtù e pretendono servilismo ed adulazione. Così dopo molti secoli, Lamezia subisce ancora Signoria e servilismo, in un paradossale condimento fatto di delirio di onnipotenza, magnificenza e quasi deità.
Tanto che oggi tutto sembra possibile e niente può più sorprendere. È possibile che si dichiari quasi "naturale" che il decoro urbano sia ingovernabile, per difficoltà economico-finanziarie del Comune, e nello stesso tempo che si celebri come un successo un Piano strutturale, vile strumento di pressione tributaria, fortemente espansivo e dispersivo nonché foriero di un potenziale incremento dell'ingestibilita' del territorio nella sua complessa articolazione. Una città contraddittoria, sonnambula e da movida provvisoria, che si dirige verso l'ignoto e che non è in grado di autodeterminarsi per fondare strategie a lungo termine. E dove il mare, per fare un esempio, grida vendetta nonostante il martellante appello accorato di sensibili studiosi nell'ultimo equivoco ventennio. Una città che celebra l'ibrido storico di una concattedrale, sottomessa al privato in una "conca" destinata a diventare uno slargo dechirichiano di una città socialmente ambigua e zavorrata da caste pubbliche e private.
Una città che si prefigge persino la distruzione dell'identità storica di San Pietro Lametino, da sacrificare con marciapiedi nuovi di zecca per inesistenti pedoni di un quartiere fantasma. Un quartiere che invece implora da tempo non pietre di inciampo e future lapidi a memoria ma la risposta al bisogno di rigenerazione sociale che non può essere un parco urbano simbolo dell'inutilita', minuscola appendice umiliata dall'immensa e storica distesa degli ulivi di Campolongo; tutto senza reali e concreti vantaggi, peraltro falsamente garantiti da settemilioni di euro in direzione contraria alle finalità del Pnrr, che pretenderebbe di fermare l'emorragia demografica e non di figliare ulteriori impegni per le casse comunali con spese aggiuntive di opere di manutenzione a carico di una città in fuga e povera di presenze vere e di attività rigenerative. Basterebbe considerare il rapporto tra investimenti pubblici e popolazione realmente servita per valutarne la già evidente irragionevolezza urbanistica, funzionale e soprattutto storica. Intanto la cuscuta sociale sentitamente ringrazia, non gli dei, ma la Lamezia dei falsi miti.