Francesco Bevilacqua: “Economia di pace, un ossimoro per rinascere”

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Lamezia Terme - "Economia di pace". Quasi un ossimoro. Non è vero forse che proprio l'economia ha provocato, fomentato, nutrito ogni guerra? Non è vero forse che perfino dietro le guerre di religione vi sono motivi economici? A chi interessa che alcune aree del mondo restino sempre in conflitto, senza autonomia, senza progresso, senza pace, se non a quel risicato ceto economico-finanziario che dalla condizione di instabilità geo-politica trae ogni giorno enormi profitti? Un ossimoro dunque. Ma anche una rivoluzione lessicale. E non solo lessicale.

Il mio impegno sociale è la riscoperta del senso dei luoghi. In un angolo sperduto del Sud Italia. Per anni mi sono battuto, insieme ad altri, contro gli scempi ambientali e per la tutela delle bellezze naturali e storico artistiche. Ma, ancor di più, ho cercato di riannodare legami recisi. Tra uomini e luoghi. Lavoro duro, da rabdomante: la ricerca della bellezza perduta. Compito arduo, da sciamano: guarire la gente dall'amnesia dei luoghi, risvegliarla dal coma topografico. Per questo non sono bravo né in politica né in economia. Penso che un paesaggio, un buon romanzo, una poesia, un cammino, una preghiera valgano più di mille formule algebriche, di cento leggi. E, soprattutto, che mostrare la bellezza alla gente per pochi attimi serva più che un lungo dibattito parlamentare.

Mi sono interrogato, nei miei trentaquattro anni di professione e di impegno in Calabria, sulla condizione di questa terra. Mi sono chiesto perché la Calabria (il Sud) è così. Mi sono domandato quali sono le ragioni della nevrosi del Sud. Mi sono chiesto il perché la Calabria è un luogo (naturale e antropologico) così radicalmente ambiguo, su quali possano essere le soluzioni ai suoi problemi endemici. Poche le risposte. Come Carlo Levi e Giuseppe Berto penso che il Sud Italia abbia sofferto, sin dal secondo dopoguerra (e forse anche prima) di un grave complesso di inferiorità della propria civiltà contadina rispetto alla civiltà industriale del Nord. Con la conseguenza che la civiltà contadina (e tutto ciò che essa evoca, ambiente e paesaggio compresi) va cancellata, mentre la civiltà industriale va imitata. Per questo il Sud è vissuto con l'idea che la sua diversità è la causa dei suoi mali. La soluzione: emulare, scimmiottare, cambiare, lasciarsi "pensare" dagli altri. La questione meridionale - benché prodotta e dibattuta con i più nobili intenti - ha finito per suggellare il segno negativo di cui sarebbe intrisa questa diversità. Ed è forse proprio per questo che essa si è spenta, inesorabilmente, con la fine dell'illusione di fare del Sud una copia claudicante del Nord. Ci restano i segni tangibili di questa illusione: enormi aree industriali dismesse prima ancora di essere entrate in funzione, territori abbrutiti dal cemento, identità culturali cancellate (salvo qualche rimasuglio folkloristico), un tessuto imprenditoriale lasco ed altamente provvisorio, un aumento esponenziale della criminalità organizzata, una bassissima qualità della politica. Sbaglia chi dice che la 'ndrangheta è un fenomeno che la Calabria ha esportato nel resto del mondo. Essa è, invece, frutto dello stesso fraintendimento emulativo di cui dicevo sopra. E' la malavita calabrese che ha imitato (questa volta con successo) la legge del più forte che vige nel resto del mondo (con qualche eccezione, con qualche variabile). Ha capito che in una terra "senza peccato e senza redenzione" (come scrisse Levi, a proposito della Basilicata), era più facile avere la "simpatia" della gente, operare in un contesto omertoso, compiacente, connivente. Ha capito che se era possibile far guerre terribili tra le nazioni in nome del dio denaro, la stessa idolatria può servire a produrre un conflitto strisciante e duraturo nel seno di una società debole, malata. Sul quale lucrare, ancora una volta, impunemente.

Per tutto questo dico che parlare di economia di pace ha il sapore di un'eresia. Soprattutto al Sud. Soprattutto in Calabria. Ma per fare economia di pace quaggiù occorre cominciare a ripensare il Sud da Sud. Occorre abbandonare tutte le categorie obsolete che hanno governato il pensiero sul Sud sino ad oggi. E' una questione affrontata, tra gli altri, da Franco Cassano. Primo: basta con l'idea che il Sud è vittima di uno sfruttamento sistematico, idea che produce necessariamente un atteggiamento vittimistico, una strategia antagonistica. Secondo: basta con l'idea che il Sud è sempre in ritardo rispetto ad una modernità - che oggi, per altro, è in profonda crisi - che presuppone un continuo ed inutile rincorrere, ma anche un dirigismo sviluppistico avulso dalla realtà. Terzo: basta con l'idea che la soluzione sta nell'autonomia politica, perché il separatismo è un evidente palliativo che, dove applicato, non ha mai prodotto gli effetti sperati.

Dove sta allora la speranza? Forse proprio nell'economia di pace. Nel contrapporre cioè al fondamentalismo dell'economia ed all'economia criminale, oggi imperanti, un'economia che lavori per la pace. Si intende certo pace sociale, innanzitutto, riconoscimento di diritti, tutele per i soggetti deboli, meccanismi di accesso alle opportunità economiche che non avvantaggino qualcuno a scapito di altri, valorizzazione di tutti quei meccanismi partecipativi della gente comune alle scelte politiche che già Ernesto de Martino individuava come deficit delle moderne società laiche e desacralizzate. Si intende, come sostiene Hans Kung, che l'economia non pretenda di fare a meno dell'etica.

Si intende, quindi, pace degli uomini con gli uomini, certo. Ma anche pace degli uomini con i luoghi. Quegli stessi luoghi che hanno cullato civiltà millenarie, ancorché povere. I luoghi dell'abitare inteso in senso heideggeriano, in cui l'uomo vive eticamente, si sente protetto ma che, nello stesso tempo, tratta eticamente, protegge. Uno scambio simbiotico che è il presupposto di qualunque rinascita non illusoria.

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