Color Fest 7, "Sei bella davvero": il report della settima edizione

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Platania - Reduce dal record di presenze della prima a Platania, il Color Fest si conferma tra i punti di riferimento indie del Meridione con una nuova edizione che, dopo una partenza un po’ in sordina (complice la presenza di Salmo alla Summer Arena di Soverato), ha in parte recuperato i suoi standard nella seconda giornata, pur senza raggiungere – ma per poco - i numeri dell’anno precedente.  Numeri che diventano sempre più relativi, però, in una due giorni che ha comunque visto alternarsi, sul palco della Giurranda, nomi storici della scena alternativa (Massimo Volume, Giorgio Canali e I Hate My Village) e nuove proposte in rampa di lancio (Motta, La Rappresentante di Lista e Myss Keta), per una line-up in perfetto equilibro tra chitarre e suoni sintetici di matrice “indie”, con tutte le sue derive itpop, elettropop e persino pop rap. Un equlibrio non del tutto a fuoco nel Day I, con Fast Animals and Slow Kids, La Rappresentante di Lista, Franco126, Clavdio e N.A.I.P. a fare da sparring partner ai due live più chitarristici di I Hate My Village e Tre Allegri Ragazzi Morti, tra i principali highlights della serata.

Inserito praticamente a inizio giornata (alle 18.30, dopo la nuova promessa di Bomba Dischi, Clavdio), il supergruppo formato da Alberto Ferrari (Verdena), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Fabio Rondanini (Afterhours, Calibro 35) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) ha subito alzato l’asticella dando vita a un set esplosivo destinato a oscurare il resto del cartellone. Questione di talento e, soprattutto, di idee: la proposta degli I Hate My Village, diretta emanazione delle varie influenze dei quattro musicisti, soprattutto quelle terzomondiste di Viterbini e Rondanini, si è confermata anche in sede live un’onda anomala in un panorama ormai inflazionato come quello indie italiano. Tutto chiaramente un po’ derivativo, non fosse per la solita voce iper-effettata di Ferrari, ma suonato con gran classe e una sana voglia di sperimentare con un immaginario che dal blues del Delta si inoltra nei tribalismi afro di quella new wave vicina alle suggestioni world di Talking Heads e King Crimson anni ’80 (“Fare Un Fuoco”), passando, perché no, dal desert rock di matrice Paisley (“Fame”). Una novità assoluta a certe latitudini, messa in piedi da musicisti navigati (da applausi la sezione ritmica composta dal duo Rondanini/Fasolo e le insolite tessiture elettriche della chitarra di Viterbini), e un’autentica boccata d’aria fresca che si spera possa durare a lungo.

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Paisley Undeground che, a dir la verità, ben poco ha in comune con il set dei Tre Allegri Ragazzi Morti, reduci dall’ultimo album in studio, “Sindacato dei Sogni”, omaggio ai Dream Syndicate (difficile, però, capire quanto Steve Wynn potrebbe apprezzare) in realtà più vicino a uno psych-pop vagamente anni ’80 che alle grandi guitar band del periodo. Si tratta di uno dei live più partecipati e catchy della serata, con anthem adolescenziali cantati a squarciagola (“Mai Come Voi”, “Occhi Bassi” e “Il Mondo Prima”) intervallati a nuove composizioni (“Caramella”).  Altro set particolarmente apprezzato, collocato tra IHMCV e TARM, è quello de La Rappresentante di Lista, progetto elettro-pop di stampo cantautorale che, oltre a flirtare con soluzioni smooth jazz, nasconde dietro synth e arrangiamenti piuttosto curati una vena “leggera” che non sfigurerebbe affatto sul palco di Sanremo.

A concludere la prima giornata le stralunate – forse troppo – sperimentazioni elettroniche di N.A.I.P., il rivedibile rap intriso di pop dell’ormai ex trapper Franco126 e il ritorno dei Fast Animals And Slow Kids, tornati al Color per presentare “Animali Notturni”, ultima fatica in studio in cui hanno assorbito, con le dovute proporzioni, la lezione dei National, aggiornata secondo i canoni dell’itpop grazie al produttore Michele Cantaluppi (non necessariamente un bene). Numeri in leggero aumento - e standard qualitativi decisamente più elevati - nella seconda giornata. Si parte alle 17 circa con Claudia, vincitrice del contest Color, seguita da un altro ritorno eccellente, quello di Giorgio Canali (qui l’intervista alla preview del Color 4) e dei suoi infaticabili Rossofuoco. Autore anarchico e irriverente, Canali ha subito mostrato il lato più politico del suo songwriting, affidando alla resistenza antifascista di “Lettera del compagno Laszlo al colonnello Valerio” l’apertura di un set piuttosto intenso (anche “Nuvole senza Messico”, “Emilia Parallela”, “Mostri sotto il letto” e “Ci sarà”), culminato nel capolavoro dell’ultimo album, “Radioattività”, ennesima “lezione di poesia controvento” dai risvolti quantomai drammatici.

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Politica ancora protagonista con la presentazione del libro di Fernando Rennis, “Politics – La musica angloamericana nell’era di Trump e della Brexit”, interessante spartiacque che, dopo il rapper Murubutu, ha spalancato le porte ad uno dei momenti più attesi della serata. Reduci dalla release de “Il Nuotatore”, senz’ombra di dubbio l’album italiano dell’anno, i Massimo Volume hanno segnato un’altra, netta linea di demarcazione tra il prima e il dopo, qualcosa destinato a condizionare qualsiasi giudizio successivo, a partire dalle “positive vibrations” (ma i Soft Boys non c’entrano nulla) degli Eugenio in Via di Gioia e dell’open mic di Spaghetti Unplugged.  Un tentativo di cortocircuito anzitutto emotivo che lascia però indifferenti, irrimediabilmente schiacciato dallo spleen dei brani de “Il Nuotatore”, storie di vita vera dal valore universale, declamate da Mimì Clementi col solito piglio da “ultima notte del mondo”. Un flusso di coscienza algido e implacabile, guidato da un tessuto ritmico cavernoso che dal post-punk conduce al post-rock, dopo aver attraversato un girone dantesco fatto di continui riferimenti letterari e sperimentazioni ardite divenute un marchio di fabbrica. Anche in sede live, canzoni come “Litio”, “La voce ad Orlando”, “Dymaxion song”, “Fred”, “Le nostre ore contate”, “Amica prudenza”, “Nostra Signora del Caso” e “La ditta di acqua minerale” sono un pugno nello stomaco ben assestato nel sottilissimo confine tra piacere e dolore, amore e odio, vita e morte: qualcosa che il von Masoch de “L’ultima notte del mondo” avrebbe apprezzato parecchio.

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Altro highlight della serata il set di Motta, probabilmente il cantautore più interessante della sua generazione, protagonista di un live sorprendente in cui, tra un instant classic indie e l’altro (“La nostra ultima canzone”, “La fine dei vent’anni” e “Sei bella davvero”, giusto per citarne alcuni), si è confermato autore maturo e anche discreto animale da palco, coadiuvato da una band eccellente in grado di trascinare il suo leader in territori insospettabilmente hard. L’esibizione al Color, forse la più apprezzata dal pubblico, ha mostrato una consapevolezza diversa, cresciuta enormemente dalla prima apparizione al festival lametino nella Winter Session del dicembre 2016, decisamente maturata dopo il successo di critica e pubblico di un album personale come “Vivere o morire” (2018). Davvero un gran bel live. Chiusura nel segno della “sensualità” (concetto quanto mai relativo) con le provocazioni di Myss Keta, nuova, arguta diva del pop elettronico italiano che, tra allusioni sessuali e qualche bottiglia di vodka, ha concluso questo Color Fest 7 rivendicando un finto orgoglio trash capace di elevare ulteriormente il tasso di spettacolo. È questo l’ultimo atto di un’edizione da annoverare, nel bene e nel male, tra le migliori della giovane ma già importante storia della rassegna lametina. Un’edizione “bella davvero”.

Francesco Sacco

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