Lezioni di poesia controvento, Giorgio Canali: “Il mainstream non mi interessa”


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Lamezia Terme - Giorgio Canali è un pezzo di storia del rock alternativo italiano. Chitarrista di formazioni seminali come CCCP, C.S.I. e P.G.R., songwriter, tecnico del suono, apprezzato produttore: nell’arco di una carriera trentennale, Canali si è affermato come autore anarchico, rabbioso e irriverente, sempre fedele a una furia iconoclasta prettamente punk che lo ha reso uno dei principali punti di riferimento dell’underground tricolore. 
Il tour di supporto al suo ultimo lavoro con i Rossofuoco, “Perle per porci”, lo ha visto approdare al “Cafè Retrò” di Lamezia Terme, ospite del “COLOR Fest” per una nuova tappa di avvicinamento all’ormai consueto festival estivo.
Lo abbiamo incontrato al termine del soundcheck, prima di una performance intensa e viscerale in pieno stile Canali, tra classici in versione solo electric e immancabili testate al microfono.

Partiamo dall’album che stai portando in tour, “Perle per porci”, una raccolta di cover 
in cui omaggi prevalentemente artisti un po’ di nicchia, per utilizzare un eufemismo. Come nasce questo progetto?

"Un bel po’ di nicchia. È tutta roba che mi ha emozionato, che ho ascoltato in ciclo per un sacco di tempo. Sai com’è, conosci qualcuno che fa delle cose belle e ti rendi conto che non c’è abbastanza attenzione nei suoi confronti, perché in quel momento funziona qualcos’altro. 
In Italia, nel panorama della musica “di lato”, è sempre stato così. Salta fuori una realtà su cui tutti focalizzano il proprio interesse, e tutta la musica intorno, se non assomiglia vagamente a quella roba, non vale niente. Si chiama “essere alla moda”. Per questo motivo, faccio da quasi vent’anni musica completamente démodé, mai di tendenza, mai sulla cresta dell’onda. E non parlo di mainstream, non mi interessa, quello non è assolutamente il mondo dei Rossofuoco. Ma capita anche nell’underground: tutte le cose un po’ fuori moda non funzioneranno mai".



Da qui il titolo “Perle per porci”, quindi?


"Esatto. Sono perle gettate in pasto alla gente di strada che ha ignorato queste cose quando sono uscite, non a chi le ascolta adesso sul nostro album. Io penso che il mio pubblico sia molto intelligente, perché è piccolo, e la deficienza del pubblico è esponenziale. So che può sembrare un discorso abbastanza fascista (ride), ma “la mayoria de la gente es tonta”, come diceva Borges".



L’album arriva a cinque anni di distanza dall’ultimo disco di inediti, “Rojo”, pubblicato dopo una crisi creativa durata un paio d’anni, come hai ammesso nel 2011. Hai avuto problemi simili in questo periodo?


"Guarda, un po’ di crisi c’è. Però, a dir la verità, negli ultimi cinque anni non sono stato con le mani in mano. Abbiamo rimesso insieme quell’avventura divertentissima rappresentata dai C.S.I., con Angela Baraldi alla voce, trasformando il carattere quasi cattolico, liturgico di quel materiale in puro rock’n’roll. Con Angela abbiamo anche portato in giro un omaggio ai Joy Division, mentre con i Rossofuoco siamo stati impegnati in una tournée senza fine con un discreto seguito di pubblico. A quel punto, sai, non avverti l’esigenza di chiuderti a scrivere. Poi, è chiaro ci sia un po’ d’ incertezza sul prossimo lavoro, anche perché ho detto talmente tante belle cose che è difficile andare più in là. Però son sicuro che il prossimo album d’inediti farà paura. Mi metteranno in galera, secondo me".

A proposito di Ian Curtis e Joy Division, come è nato il progetto “Love will tear us apart”?


"Era il 2010, il trentennale della morte di Ian Curtis. L’Ater di Reggio Emilia (Associazione Teatrale Reggio Emilia e Fondazione Nazionale della Danza) aveva proposto ad Angela di fare quest’omaggio ai Joy Division inizialmente da sola. Solo successivamente le hanno fatto il mio nome, anche se non ci conoscevamo. Lei aveva in testa una roba molto elettronica, ma io preferivo strutturarlo con due chitarre e voce, stop. Lo trovavo divertente, perché suonare i Joy Division senza basso e batteria è una bella sfida. Mantieni l’essenza delle canzoni senza farne una scimmiottatura. Poi abbiamo suonato al Museo di Storia Naturale di Reggio Emilia, in realtà più simile a una galleria degli orrori degli anni ‘20, un freak show, ed è stato fighissimo. Secondo me è venuto bene".

Nei tuoi testi, a volte politicizzati, anarchici e rabbiosi, altre fortemente intimisti, spesso si ha la sensazione di una visione apocalittica del mondo. Un mondo in cui la democrazia fondamentalmente non esiste. Citando lo storico documentario sul punk americano di Penelope Spheeris, è forse questo il vero declino della civiltà occidentale?

"Tu vedi democrazia qui in giro? Siamo onesti: abbiamo un governo che non è stato eletto da nessuno ed è lì da quanto tempo? Anche quello precedente non era stato eletto da nessuno, ed è stato lì quanto tempo? Questa si chiama democrazia? Chi li ha votati quelli? Io non voto mai. Il mio voto tanto vale quanto quello del primo imbecille che passa, e non ci sto. Si chiama “diserzione”. Per votare e procreare, secondo me, ci vorrebbe una selezione basata sull’intelligenza della gente. L’analfabetismo è pericoloso. Quella democrazia fa paura. Da trent’anni diciamo che questo mondo capitalista è finito, però sta sempre lì. Sta agonizzando forse, ma per non morire incasina tutto il resto e inventa guerre che non esistono. Dicono si sia in guerra da un anno e mezzo, e alla fine questo conflitto diventerà reale. Ci sarà veramente. Ma è una guerra contro nessuno. Esatto, la civiltà è in perenne declino e la mia  non può che essere una visione apocalittica".



Come hai vissuto i tragici fatti di Parigi, in particolare, da musicista, gli attentati al Bataclan?


"Ho vissuto a Parigi per tutti gli anni ’90 e andavo a vedere almeno un paio di concerti a settimana al Bataclan. Ci ho pure lavorato due/tre volte. Ho immaginato quella gente nei corridoi, al primo e al secondo piano, l’ho vista attraverso i miei occhi, ed è stata una sensazione forte. Sai, quando succedono cose del genere, penso sempre a chi è giovane. E credo veramente -lo dico sotto forma di battuta- che la dietrologia sia l’unica scienza esatta. Tanto sono solo un pagliaccio che nessuno prende sul serio, e per la gente restano teorie poco credibili anche se lo dice qualcuno che fa politica. È roba che non interessa e per questo si tende a screditare chi osa pensar male".

Tornando al punk, periodo in cui fondamentalmente ti sei formato, possiamo affermare tu sia uno dei pochi cantautori punk rimasti? Com’era il 1977 in Italia? 


"Sono un songwriter, è diverso. Quel termine viene da un’Italia che non mi piace, è stato inventato da un discografico negli anni ’50 e i discografici italiani sono sempre stati degli imbecilli. Perché utilizzare un termine inventato da un imbecille? Il punk da noi era più una moda, ma lo era anche in Inghilterra e in America, in fin dei conti. Qui il fenomeno esisteva marginalmente: c’erano gruppi come Kina, Not Moving o Franti che erano punk più nello stile che nella musica. La scimmiottatura del punk in Italia, sinceramente, faceva schifo. Penso ai S.I.B., per esempio, che facevano del rock’n’roll, anche brutto, con creste e spille infilate nelle guance. Più tardi arrivarono i CCCP, ma quando qualcuno li definiva punk mi infuriavo. Certo, parliamo di una realtà interessantissima, divertente dal vivo, Giovanni Lindo Ferretti scriveva cose fantastiche, ma non erano punk. Il punk sono i Clash, punto".



Ciò che non sembra esser cambiato dal 1977 è proprio la tua attitudine punk, l’urgenza espressiva, questa rabbia un po’ da angry young man…


"Non credo sia rabbia, ma voglia di esser franco, sempre. Siccome sono molto timido, spesso enfatizzo violentemente quello che dico in modo che la gente pensi possa essere pericoloso. Ma non mi reputo particolarmente punk nell’atteggiamento, sono solo un po’ brusco e violento. Non sono un pacifista, non sono per la non-violenza, e su questo son d’accordo con Ferretti. A volte sono reazionario, quasi fascista, ecco. Ma non datemi del fascista o m’incazzo (ride)".



Oltre a essere musicista e songwriter, sei anche un noto produttore. Come ti senti in questo ruolo? Come vedi attualmente il panorama indie italiano?


"Non mi piace fare il produttore. Non mi diverto in studio, mai. Non amo nemmeno fare i miei dischi, vorrei che venissero fuori da soli. Appena mi viene in mente una canzone, vorrei che fosse già pronta, suonata, missata e masterizzata. Ultimamente produco solo amici, perché a loro non posso dir di no, mai. Non è nemmeno una cosa che mi fa guadagnare. Se mi mantenesse potrei anche fare questo sforzo, ma non è così. Mi definirei un produttore amatoriale. Per quanto riguarda la scena indie in Italia, c’è sempre un mucchio di roba buona e roba pessima. L’unica differenza rispetto a quindici anni fa è che adesso puoi registrare del materiale qualitativamente -parlo di tecnica- buono con quattro soldi, quindi chiunque può arrivare a fare un prodotto finito. La percentuale della musica interessante è chiaramente inferiore, ma ci son sempre quei rari casi in cui viene fuori del materiale valido. La roba che mi emoziona è poca, ma è sempre stato così. Quando mi emoziono, però, mi emoziono forte. Per esempio, la prima volta che ho ascoltato “Quello che non c’è” degli Afterhours (prossimi headliner al Color estivo, ndr), ho messo su la titletrack per ventiquattr’ore di fila, senza passare al secondo brano. Prima non mi piacevano affatto, adesso li reputo il più grande gruppo rock italiano. Sono viscerale anche negli ascolti. Diciamo che ascolto la musica, anche la mia, come una ragazzina bruttina con molti problemi di relazione con la gente (ride)".

I tempi sono maturi per un nuovo album di Giorgio Canali e i Rossofuoco?


"Guarda, entro la fine dell’anno uscirà il nuovo disco di Angela Baraldi e, successivamente, saremo in giro per il tour, quindi sarò piuttosto impegnato. Poi, mi è venuta voglia di continuare con le perle per porci, e credo che il prossimo album potrebbe essere un secondo volume, magari diverso, in versione minimale, senza la band, perché con il loro approccio hard è impossibile suonare roba in punta di piedi. Solo canzoni intime cantate sottovoce. Ormai sto invecchiando e devo rendermi un po’ interessante".

Francesco Sacco

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