A scuola di paesaggio

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco_bevilacqua.jpg Guido la classe di mia figlia - una quinta elementare di Lamezia Terme - con insegnanti e qualche genitore, in un’esperienza all’esterno delle mura scolastiche, per loro inconsueta. Li conduco in un piccolo paradiso naturale, ignoto alla stragrande maggioranza dei cittadini, ma che si apre a poche decine di metri dall’abitato. La parte alta della città è arroccata attorno ai ruderi del castello normanno-svevo, alle cui spalle salgono le ripide pendici dei monti del Gruppo del Reventino, intervallate da strette gole di torrenti e ruscelli. In quei luoghi impervi e boscosi si diramano antiche vie di penetrazione verso l’interno. Servivano a raggiungere il cesello di orti e coltivi terrazzati sulle pendici delle valli, quelli che Manlio Rossi Doria chiamava “giardini mediterranei”, a trasportare merci verso i paesi di montagna e scambiarle con altre merci. Erano le vie dei pastori, dei contadini, dei carbonai, degli acquaioli, dei boscaioli. Venivano utilizzate anche come vie di fuga contro le invasioni dei pirati provenienti dal mare. I bimbi, gli adulti sono tutti eccitati. Ci incamminiamo nonostante una pioggerella sottile che non ci dà tregua ma non fa scemare l’entusiasmo, anzi, fa sentire tutti un po’ intrepidi. Dalle vecchie case che circondano il castello, penetriamo nella piccola giungla mediterranea della gola del Torrente Canne. Bastano cinquanta metri di cammino, basta allontanarsi dall’abitato, ed entriamo in un mondo fiabesco (e pensare che la gente, a Lamezia, passeggia sulle strade asfaltate!). L’acqua del torrente saltella gioiosa fra i massi, formando pozze e cascatelle. Due ali di pioppi ed ontani ornano le sponde. Sulle pendici, i muri di pietre a secco degli antichi terrazzamenti sono stati inghiottiti dal bosco. Qualche rudere di case rurali e mulini. Uno è stranamente in restauro. Segno che anche qui è iniziata la fase del ritorno e della riscoperta di questi luoghi abbandonati da più di sessant’anni. Bimbi e adulti sono letteralmente incantati da ciò che i loro occhi percepiscono e che credevano esistesse solo in TV.

Spiego la storia dei luoghi, come si sono evoluti nel tempo, come l’uomo ha interagito con gli elementi naturali. Mostro loro tanti particolari. Insegno i rudimenti del camminare in natura. Provo a fare da medium tra loro e i luoghi. Che sono poi i luoghi dei loro nonni, dei loro antenati, che essi stessi conservano in quella che potremmo definire memoria ancestrale. Incontriamo un contadino solitario, allarmato per quella invasione inattesa. Mostriamo i piccoli campi di patate, cetrioli, pomodori, zucche, gli alberi di aranci, noci, ciliegi, i ruderi delle case, gli acquari. Al ritorno i bimbi consumano la colazione tra le case del borgo, discorrendo con una vecchina di 88 anni che ci racconta la sua storia. Più tardi, a scuola, con l’aiuto degli insegnanti, ogni bimbo prova a spiegare cos’è un paesaggio. Ed io appunto le loro parole sulla lavagna. Ne vien fuori un puzzle. Attraverso il quale ricostruiamo insieme il concetto. C’è chi dice “luogo”, chi “natura”, chi “segni”, chi “osservazione”, chi “rispetto”, chi “incanto” … Alla fine sono gli stessi bimbi, come nella maieutica socratica, a interpretare il senso della loro piccola avventura alla scoperta del paesaggio di “casa”. Una mia domanda finale, un po’ birichina: “ma quel contadino, quella vecchina sono anch’essi paesaggio?” Rispondono affermativamente, senza esitare. Mi sento commosso e pago. E’ stata una mattinata ben spesa, anche se ho dovuto sacrificare il lavoro. Ho provato ad insegnare ai bimbi ciò che ho tanto studiato e vissuto. Ma quel che loro hanno insegnato a me va molto più in là.

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