Sì, fa caldo, statevene a casa. O al massimo andate al mare. Grazie. Noi “soffriamo” nelle gole dell’Alaco

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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“Fa caldo”, “che caldo”, “si muore dal caldo”, sono le frasi più ricorrenti che si sentono pronunciare in questi giorni, a cavallo fra luglio e agosto. Negli ascensori, come “frasi di spostamento”, secondo il lessico dell’etologo Desmond Morris, autore di un insuperato “La scimmia nuda”. Al negozio di frutta e verdura, come convenevoli genere meteo. A casa, tra familiari, che non sanno che c’è vita anche nel Sahara. E persino qualche amico escursionista: “meglio restare a casa, con questo caldo”. Ebbene sì, statevene tutti a casa, accendete l’aria condizionata a palla. E illudetevi che d’estate possa fare fresco. Ma è estate! Cosa diavolo dovrebbe fare se non caldo! Io me lo godo il caldo. Mi piace. Prendo sole e caldo come una cura, come un lenitivo, come una benedizione. Così come mi piace il freddo d’inverno. Sicché, a casa proprio non ci resto. E nemmeno mi va di ammassarmi nei carnai lungo le coste, lidi happy hour, aperitivi, apericena, balli caraibici, musica che ti sfonda i timpani, deretani sculettanti, tette, muscoli e pance debordanti. Siamo solo in due stamattina. I superstiti alla catastrofe dei 40 gradi, percepiti 50 (così mi pare di aver sentito dire da qualche giornalista cretino). Stanco perché questi ultimi giorni a cavallo tra luglio e agosto sono stati densi di lavoro e d’altro. Non ho neanche avuto il tempo di immaginare un percorso nuovo, di studiarlo e organizzarlo. Penso a un fiume da risalire. Valuto, tra un’incombenza e un’altra. Arriva la folgorazione. Inattesa. Controllo sulla mia guida al Parco delle Serre: non ci vado dal 2000! Troppo, per due amici. E’ tempo di andare a vedere come se la cava la Gola del Fiume Alaco, nelle Serre Orientali, tra San Sostene e Sant’Andrea Apostolo allo Ionio. Anche qui, attraversiamo in auto colline meravigliose martoriate dagli incendi. Sant’Andrea è un paesino bellissimo, uno di quelli dove i turisti intelligenti (ammesso che ve ne siano ancora) potrebbero trascorrere le loro vacanze, avendo mare e montagna a breve distanza, trovando nel borgo gente accogliente e conviviale, cibo genuino, arietta frizzante che scivola giù della valli e dai crinali. L’imbocco della stradina che risaliva, per un km e mezzo la valle è franato. Poco male: la faremo a piedi.

Anche qui la vegetazione è cresciuta a dismisura dall’ultima volta che ci sono venuto. I giganteschi castagni fin dove si arrivava con la macchina sono quasi tutti morti. Paiono sculture naturali. Nel folto di un giovane bosco, le mirabili castagnare di pietra che mi impressionarono le prime volte per le loro forme inusuali. Paiono romitaggi di asceti. Se immagino dove vorrei scrivere un romanzo, una di questa case sarebbe l’ideale per ospitarmi in solitudine per almeno un anno. Uno stretto sentiero a mezza costa nel bosco giovane ci svela la storica destinazione agraria di queste pendici: anche qui, un cesello interminabile di terrazzamenti con muretti di pietre a secco ormai abbandonati ed inghiottiti dalla vegetazione. Del resto, sulla carta corografica, ogni piccolo ruscello, ogni fazzoletto di terra ha un suo preciso toponimo: Vodaci, Cosentino, Cerasara, Crivone, Ziia, Bosco di San Filengo, Prandi, Vallone Giulio Varano, Vallone Fammona, Agramolara. Segno che ogni più piccolo pezzo di terra era stato fatto proprio dagli uomini. E che l’attuale aspetto selvatico dei luoghi si è prodotto per via dell’abbandono. Siamo nella giungla, una giungla mediterranea. Una rampa ci porta sul greto. Quanta acqua! Altro che siccità. Inizia la risalita, rocambolesca ma prudente del greto. Fra guadi e scavalcamenti di giganteschi massi di granito rotolati sin quaggiù nei millenni. I vecchi camminamenti laterali sono letteralmente scomparsi. Rovi, eriche, ginestre arbusti, piccoli alberi ostacolano ogni tentativo di aggirare i tratti a canyon. Felici come bambini (ma prudenti come camminatori) entriamo nell’utero dell’Alaco. Una sensazione che provo, sempre, quando vado in una gola fluviale o quando calo in grotta. E l’acqua è il liquidi amniotico dove ciascuno, stanco delle peripezie della vita, vorrebbe, di tanto in tanto, rifugiarsi. Ecco un’idea imprenditoriale seria: creare delle cliniche en plen air in cui esperti (guide, psicologi, chef, sciamani) ti facciano sentire, per un po’, di nuovo protetto, nutrito, amato, come se fossi tornato nell’utero materno. Che angoli sublimi! Cascate, rapide, laghetti, rupi, galleria d’alberi, rocce. A qua e là anche labili segni di un’antichissima frequentazione umana. Ma ora, quaggiù, non viene più nessuno.

Neppure i soliti pescatori, sportivi o di frodo che infestano gran parte dei corsi d’acqua della Calabria. Siamo nel nostro elemento. Siamo finalmente a casa. I torrenti, i canyon, le gole non sono solo per il divertimento. Sono innanzitutto per l’amore, per la bellezza, per la memoria, per lo spirito, per la preghiera. E il caldo non si avverte affatto! Spira un venticello ristoratore che viene dall’alto dei boschi lussureggianti delle Serre. Al ritorno una grande pozza ci chiama. Entriamo nell’acqua gelida vestiti. E’ il nostro gioco fanciullesco, ancestrale. Di quando i nostri padri, i nostri nonni bambini facevano il bagno nei “gurnali” dei fiumi, non al mare. Lungo è il ritorno. Quando la prudenza raddoppia. Ma alla fine siamo paghi e felici. Felici di non aver sentito, per un giorno intero, qualcuno che ci ricordasse quanto fa caldo. Eppure li vediamo, i signori del “quanto fa caldo”, mentre scorriamo in auto, lungo la statale ionica, prenderselo tutto, il caldo, sudori e afrori, rumori e schiamazzi, annessi e connessi, sulle spiagge assediate dai primi vacanzieri di rapina ai quali soli ancora i nostri politici innalzano sguaiate preci pubblicitarie. E’ vero, lo ammetto, il caldo ha asciugato i nostri pantaloni! Ma le mutande no. Quelle sono ancora umide e fresche. Segno che il Mediterraneo non è ancora il Sahara.

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